Giusi Arimatea

LIBRI

IL LATO NASCOSTO DELLE STORIE di Roberta Di Pascasio

Dieci capitoli, dieci sostantivi astratti che non costituiscono una semplice raccolta di racconti, ma un romanzo vero e proprio, dalla struttura complessa e dall’impianto narrativo stratificato.
Le storie si rincorrono e si intrecciano, ognuna contiene un frammento dell’altra, mentre i personaggi appaiono, si sfiorano, si perdono di vista. Tutti legati da fili sottilissimi e ingovernabili destinati a spezzarsi per l’irrompere di uno scenario inedito, di un nuovo crinale esistenziale.
Nell’ingegnoso “Il lato nascosto delle storie” di Roberta Di Pascasio (Arkadia, 2024) un palazzo sembra rappresentare l’epicentro simbolico attorno al quale ruotano le vite narrate. Ma si tratta di un luogo mentale più che fisico, perché ciò che tiene insieme le vicende non è un perimetro spaziale. E quando sembra che i fatti rispondano a precise leggi di causa-effetto, dentro i medesimi scenari, gli esiti puntualmente si sottraggono alla volontà, andando dove devono, dove possono, dove capita.
Il romanzo, perché è così che si configura nella sua interezza, più che come una semplice antologia, esorta implicitamente a una riflessione sul caso e al contempo sulle cause complesse e non lineari che determinano le svolte dell’esistenza. Ed è procedendo in questa direzione che risulta inevitabile il richiamo a Stuart Mill, secondo il quale tutto ciò che accade sembra discendere da ciò che è stato, dalla pluralità di cause non connesse che ontologicamente generano il caso.
Del resto, se ci si fermasse all’apparenza, anche dentro alle pagine di Roberta Di Pascasio, si resterebbe invischiati in un fatalismo tanto inverosimile quanto infecondo. È piuttosto il lato nascosto degli eventi, il retro della superficie, a restituire la verità: quella delle cause profonde, delle motivazioni sommerse, degli impercettibili snodi che hanno fatto deviare irrimediabilmente i destini. Mentre la penna scava dovunque, persino nelle colpe. In cerca di alibi, di assoluzioni, di agevoli parafrasi dell’errore.
La prosa è asciutta, rigorosa, essenziale, priva di orpelli e, nel rispondere a una precisa esigenza espressiva, rivela la piena padronanza degli strumenti linguistici e narrativi. Così che dentro ai margini di un equilibrio formale consapevole, le sequenze risultino sapientemente calibrate e l’alternanza tra i dialoghi, cuciti su misura sui personaggi, e i momenti di riflessione, che mai cedono alla retorica, cadenzino con grande dimestichezza il ritmo alla narrazione. È in quei momenti intimi che la scrittura, senza mai derogare alla sobrietà, scava negli avvallamenti delle coscienze, cogliendone l’essenza e restituendo al lettore un’interiorità che si fa riconoscibile, universale.
La galleria umana affrescata dall’autrice è ampia e articolata, tanto sul piano generazionale quanto su quello socio-culturale. A tenere uniti i personaggi è tuttavia un comune denominatore di sofferenza, declinata in forme diverse ma sempre ravvisabili. Talora alcuni tendono verso l’altro in un gesto di apertura, lasciandosi attraversare da un’effimera tensione solidale, traendone conforto temporaneo. Eppure nessuno – e forse è questo l’esito più amaro – riesce a varcare la soglia dell’autenticità, della personale compiutezza.
Si rimane come sospesi, in bilico tra il desiderio di tentare e quello di consegnarsi alla confortevole immobilità, comunque prigionieri di una vita che mai si lascia interamente governare.
L’autrice attraversa con lucidità e sensibilità la vasta gamma delle esperienze emotive e le consequenziali implicazioni morali: dall’innocenza alla colpa, passando per le molteplici sfumature dell’agire individuale e delle contingenze interiori. Ogni personaggio si confronta con la propria zona d’ombra, è costretto a rispondere in prima persona della propria inadeguatezza, un territorio inafferrabile, benché universale, in cui si annidano limiti, reticenze, mancanze. E qualche sporadico desiderio.
Quando però si allarga lo sguardo sull’insieme, su questa umanissima fiera dell’Est reinterpretata narrativamente, ci si accorge che il destino altro non è che l’esito di scelte impulsive, di inciampi, di frenate all’ultimo secondo e di accelerazioni insensate nel traffico cittadino delle ore di punta. Ci si accorge che a dominare è molto spesso la paura: quella che blocca, che pregiudica il finale più del coraggio incauto.
E in questo romanzo che è un ritratto insieme di fragilità, di occasioni mancate e di ambizioni spente, la paura di sbagliare sembra dunque il principale ingombro da cui liberarsi prima che sia troppo tardi, prima che non resti più tempo per fregarsene e tentare.

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