Giusi Arimatea

LIBRI

CON TUTTO IL MIO CUORE RIMASTO di Rosario Palazzolo

Occorre tempo per metabolizzare il dolore. O forse il dolore non si metabolizza. Forse lo si mette a sedere, da qualche parte. Con l’illusione di tenerlo a bada. Poi ogni tanto quello si alza, ti si butta addosso e a te non rimane che mercanteggiare sul prezzo che devi ancora pagare, scrivendone.
Nasce presumibilmente da questa necessità il romanzo “Con tutto il mio cuore rimasto” (ed. Arkadia) di Rosario Palazzolo. E se di questo autore, attore e regista teatrale hai avuto la fortuna di seguire il percorso artistico comprendi come il puzzle, intimo e – bontà sua – sfacciato si componga a balzelli, tra la scena e la pagina.
Sulle prime, l’ultimo romanzo dello scrittore palermitano ti lascia scomodo sul limitare della realtà. È tutto un ammasso di “se” che ti recapita ciò che potrebbe essere, ciò che qualcuno vorrebbe che sia, tanto da pensarlo e sputarlo senza prendere fiato. Fino al punto, che è: la disgraziata cognizione del dolore.
Il ragazzino seppellito in una stanza buia corre all’impazzata sul filo del tempo. E corre stando fermo. Restituendo al lettore un prequel spiritoso, per certi versi strampalato, da qualunque lato lo si guardi orrendo. Che poi è pure un modo per dribblare la paura: azzerandoti il ragionamento, fissandoti su altro.
Un prequel che indossa la veste sacra di una lunga lettera a gesù, minuscolo rigorosamente come minuscoli sono i nomi, sono gli individui nell’universo guasto, tribolato, cagionevole di Palazzolo. E in quell’universo gli adulti proprio si sono fissati con l’infelicità. Questo è almeno ciò che si staglia innanzi agli occhi del povero concetto acquaviva: carattere delicato, smanioso di comprendere, una fantastica passione – guarda un po’ – per le parole nuove.
C’è un avvicendarsi di storie, di personaggi, di date e dati a mescolare le carte, a costituire una trama complessa, e dal retrogusto amarognolo, alla stregua di un problema algebrico. Devi essere lucido per risolverlo, devi esaminare per bene quel genere umano (deficienti e cosamoscia, […] un’umanità tipofinta) che costituisce il dato più sconfortante, devi bandire la cacchia speranza e giungere con coraggio alla prova del nove che poi è la resa dei conti finale. Roba da perderci il fiato. E svenire.
Il pessimismo che soggiace alla scrittura di Palazzolo, funambolica, eccentrica, seducente, è radicale e permeato di un’amarezza, benché temperata dalla sottile ironia, che ti disintegra.
Concetto acquaviva ha in mano la verità, ma la verità scotta, comporta un prezzo che evidentemente nessuno vuole pagare. Non rimane, dunque, che segregarla, spingerla un po’ più giù e sperare che le tenebre la inghiottano.
E sul concetto di verità, sulla trasfigurazione del reale insiste anche stavolta la penna di Palazzolo, votata non a caso al teatro. Quel mondo reale, che è tutta una fregatura, deve apparire all’autore davvero molto posticcio (sono tutte fesserie) se le uniche a scostare un minimo il velo di Maya sulla tangibilità sono le parole. I silenzi, di contro, al congedo. Quando la colpa di essere nati, io credo, si paga solo da zitti.
Dentro “Con tutto il mio cuore rimasto” c’è, tra le altre cose, una Palermo da fare accapponare la pelle. E sono le asprezze di un mondo complice degli abusi, della ferocia che trasformano l’esistenza in un camposanto di ore. E dei luoghi, come delle persone, che la scrittura vivifica con un iperrealismo linguistico strabiliante, noi ne sentiamo l’odore, perfino il fetore. Così a volte smettiamo di respirare. Allora dobbiamo fermarci e cacciare dentro il ribrezzo prima di riprendere la lettura.
A margine la morale cattolica, sulla quale germinano non di rado il peccato e il senso di colpa che ne deriva. L’autore, da dentro il ventre della sua balena, le parole, ripudia una volta di più il politicamente corretto e, senza mezzi termini, getta palate di sterco sull’ipocrisia.
I contraccolpi, ça va sans dire, sono tremendi. Nessuno vince su questa terra che Palazzolo ci consegna una zolla alla volta. E tu pensi, ammaccato dalla vita, che poi arcobalena sempre. Ma così non è e quando pure gesù si lascia distrarre dagli uccelli in cielo, tu comprendi d’essere stato dimenticato.
L’autore, a proposito del dolore, ci regala pagine d’una bellezza crudele, di quella bellezza crudele che ti avviluppa le budella. È la sofferenza muta, al singolare, è il dolore che nessuno vuole sfoggiare.
Poi, come a mitigarne gli effetti, un paio di sogni sparsi qua e là. Per diritto naturale, per quell’istinto di conservazione che ti acchiappa nei momenti più impensabili. Perché nel sogno puoi sceglierti la vita futura, nel sogno ci sono montagne bellissime e fiori colorati, nel sogno c’è persino quella splendida Gioni di milvuochi, Gioni maiuscola come tutto ciò che ben comincia, cui Palazzolo ha sentito l’esigenza di dare una chance a teatro, in quell’Eppideis che è l’ennesima crudele, quantunque onesta, bugia nello scenario esistenziale che vai confezionando ogni giorno. Illudendoti di scansare la morte, di procrastinarla all’infinito. Guadagnando, invece, appena qualche metro sul nulla che potrebbe salvarti.
Il peggio, nell’orizzonte narrativo di Palazzolo, è che non vi sia un orizzonte. Il peggio è che devi restare, che sei in trappola. Con la tua verità, quella che ognuno acconcia come gli pare, quella che pure gesù non vuole guardare, quella che gli altri ti cambiano. Se non te ne vai. O la scancelli.

 

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