Giusi Arimatea

TEATRO

VINCENT VAN GOGH. L’ODORE ASSORDANTE DEL BIANCO

Armonia di tecnica e partecipazione emotiva, dominio del ruolo, sforzo fisico non indifferente, autentico confronto di Alessandro Preziosi con il Van Gogh sgorgato dalla penna di Stefano Massini. Il risultato è eccellente. 
“L’odore assordante del bianco”, Premio Tondelli 2005, è l’elegante testo teatrale contenuto in “Una quadrilogia” (Ubulibri di Franco Quadri, Milano 2006) del quale Alessandro Maggi sottolinea registicamente le suggestioni. E lo fa con quell’equilibrio tale da garantire la potenza insita nella drammaturgia di Massini senza ricorrere a strumenti espressivi forzati. Il quadro scenico deputato a contenere uomini e cose è, per esempio, il correlativo oggettivo di quel dolore, germogliato nell’esistenza del pittore olandese, di cui il drammaturgo ha tracciato le coordinate sulla carta. Non occorreva imprimergli sfumature che non fossero quelle spiccatamente monocrome suggerite, tramite ossimoro, dal titolo. E nella simmetria dello spazio scenico concepito da Marta Crisolini Malatesta, di cui bianche pareti ne inscatolano il piano incrinato, si consuma il dramma, quello sì asimmetrico, di Vincent Van Gogh.
Trentasei anni, una “testa marcia” che fa paura, e un’assenza: il colore. Ciò che ne aveva dunque contraddistinto l’esistenza, declinata su tela, forzatamente abdica nell’ultimo scorcio di vita alle asettiche stanze del manicomio di Saint Paul de Manson. Lì è vietato persino leggere. Lì tutto è confuso. Lì i giorni sono scanditi dal nulla e di tutto quel che accade sfumano finanche i reali contorni. Il fratello Theo, interpretato da Massimo Nicolini, è una presenza tangibile e, come tale, prova a tessere la trama di due anime che si sanno. Vano tentativo nella dimora della follia ove non è dato più distinguere tra realtà e finzione, ove tutto è incolore, e muto. Ove, malgrado ciò, si insinua il sogno di possedere dipinti che possano sopperire al silenzio. O quello di andar via, contando sulla firma del fratello: “per te è uno scarabocchio, per me è tutto”. 
In quel “posto che ti cava gli occhi” e all’interno del quale i sogni, uno a uno, si infrangono, Preziosi presta a Van Gogh ogni centimetro cubo del proprio corpo: ingobbito e disarmonico, controlla malamente i piedi e le mani; trasloca convulsamente il suo corpo sul palcoscenico come fosse sganciato dalla mente. Grande prova attoriale che, nei margini del rigore di una cifra stilistica misurata, fugge quelle amplificazioni, quegli stereotipi che, nel tentativo di effigiare la pazzia, troppe volte si perdono nella abusata banalità del cliché. 
Lo spettacolo è una parabola ascendente del dolore. Quel dolore che, come “carne marcia”, Vincent Van Gogh non può più vomitare fuori, dipingendo, implode nell’individuo “socialmente placido” e prepotentemente si spande sulla scena. Il disegno luci di Valerio Tiberi e Andrea Burgaretta, ipnotici giochi di ombre e penombre atti a restituire le allucinazioni della vista e gli abissi dell’animo umano, sembra azzerare l’artificio e piuttosto rimarcare l’assurda realtà dei luoghi all’interno dei quali giorno e notte si confondono e fuori dai quali sembra non esserci più nulla. Alle musiche di Giacomo Vezzani si affiancano i suoni, i rumori: deliri uditivi nella babele sensoriale di un malato di mente. E quando alla mente, mediante ipnosi, si impone l’ultimo viaggio guidato, allora nulla può più contenere il caos. La labilità sa essere terribile e, al contempo, meravigliosa. Sfumano intanto i contorni di quel magma multiforme e contraddittorio che è l’esistenza. Sfumano al pari del confine che separa arte e vita, delle certezze, della presunzione di sanità oltre i bianchi muri della follia. Ché le parole sono colori. E dipingono l’anima. 
Produzione Khora e TSA Teatro Stabile D’Abruzzo, “Vincent Van Gogh. L’odore assordante del bianco”, in scena al teatro Vittorio Emanuele di Messina, è l’esecuzione impeccabile di quel vuoto che sa farsi musica, poesia, arte, pazzia. Perché “è tutto da svelare”. Perché l’uomo è un “pozzo oscuro” dentro cui rinvenire, con occhi partecipi e compassionevoli, quel turbamento sul quale affonda le mani il teatro.

(da Infomessina.it)

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