Giusi Arimatea

TEATRO

AGRIGENTO, STAZIONE DI AGRIGENTO

Prosegue la rassegna teatrale e musicale “Promontorio Nord” curata dal regista Roberto Bonaventura e dal musicista Tony Canto che il 6 agosto scorso con “Sette corde a una voce” ha inaugurato il “Capo Rasocolmo Summer Fest”, entro cui la rassegna si inserisce. 
Capo Rasocolmo è il punto più a Nord della Sicilia e lì si schiude quel magnifico panorama che dal mar Tirreno raggiunge le isole Eolie.
Nel boschetto di pini della Tenuta Giostra Reitano, alla luce del tramonto, è stata la volta ieri del monologo “Agrigento, stazione di Agrigento”, che l’autore e attore Gianfranco Quero da anni porta in giro per l’Italia.
Una maniera scanzonata, la sua, di raccontare Luigi Pirandello, disseppellendo frammenti di vita che ne hanno segnato il percorso artistico e umano, intercalando brani tratti dalla sua vasta produzione e vivificandone i contenuti, attualissimi in molti casi.
Nel far ciò, Gianfranco Quero lascia trapelare tutto quanto il suo amore per lo scrittore di Girgenti, carta vincente di uno spettacolo che non manca mai l’occasione di trascinare il pubblico in quell’universo, piccolo se vogliamo, ove Pirandello ha maturato la sua poetica.
Un racconto “a sautari”, che a ogni piè sospinto si serve del dialetto per restituire i colori e le infinite sfumature della terra che diede i natali allo scrittore. 
Lembo di terra tra l’antica Girgenti e la marina di Porto Empedocle, Caos fu la località che Pirandello decise di abitare per sempre, come aveva espressamente chiesto prima di morire. L’urna greca che accoglie le sue ceneri fu trasportata in treno ad Agrigento, per essere murata in una rozza pietra all’ombra di quel pino marittimo che, solitario, resistette al disfacimento della natura attorno prima d’essere colpito da un fulmine e ripiantato nel 2001.
Parte dal viaggio compiuto dall’urna per raggiungere la stazione di Agrigento il racconto di Gianfranco Quero e non rispetta la fabula, prediligendo piuttosto l’uso di anacronie e digressioni per ottenere effetti narrativi senz’altro più accattivanti. 
E l’attore stesso si improvvisa viaggiatore, con tanto di valigia al seguito, come per scortare quell’urna che diventa pretesto per richiamare alla memoria il viaggio esistenziale del drammaturgo, dapprima figlio, poi marito, padre, all’occorrenza anche amante. 
C’è dapprima il giovane Pirandello a districarsi tra quelle dinamiche familiari che percepisce oltremodo distanti dal suo personale universo. Quindi il suo vagabondare per un mondo che è quella “grande pupazzata” ove ciascuno diventa pupo per conto suo, processo in virtù del quale su questa terra non può mai regnare l’armonia. Infine il marito Luigi, alle prese con la follia di quella giovane donna che il destino aveva scelto per lui e grazie alla dote della quale, fino al disastro economico familiare, aveva potuto senza affanno dedicarsi all’arte. 
Scorre innanzi agli occhi del pubblico la carrellata di uomini e donne cui presta abilmente voce e corpo Gianfranco Quero, innanzi al suggestivo scenario che si scorge dal promontorio. 
Le digressioni, numerosissime e all’apparenza accidentali, ricostruiscono buona parte dell’esistenza di Pirandello. Flash a illuminare un istante, un particolare che momentaneamente si priva dell’ombra e contribuisce a formare quel tutto cui mira il lavoro di Quero. 
Dalla condizione borghese, dalle miniere di zolfo e dalle tradizioni garibaldine della famiglia, al senso d’estraneità che affliggeva il giovane Luigi, quando non diventava fastidio per quelle campane che suonavano a presagire fischi di treni deputati alla reazione, al drastico cambiamento. Da Palermo a Bonn, dove Pirandello nel 1891 si laureò in Filologia romanza con una tesi su “Suoni e sviluppo di suoni nel dialetto di Girgenti”. 
Dall’ombra del pino marittimo ai palcoscenici dei teatri ove obbligava attori del calibro di Angelo Musco e Marta Abba a estenuanti fatiche. Da pagine e pagine di romanzi, novelle, poesie e teatro a quell’ultimo capolavoro, incompiuto, che è “I giganti della montagna”, a conclusione della fase dei miti verso cui aveva virato la sua produzione drammatica.  
A margine dello spettacolo, vita e forma, maschere, la spersonalizzazione nella società, le trappole in cui si dibatte l’individuo, prima fra tutte la famiglia; ancora la fuga, la ricerca di quella condizione metafisica che è salvezza, la filosofia del lontano per cogliere l’inconsistenza, la totale mancanza di senso. 
Di traverso, a tagliare ogni cosa, l’umorismo, mai nominato eppure adoperato costantemente sulla scena, senza mai calcare la mano. Ché Gianfranco Quero sceglie bene i tempi del racconto, tra le accelerazioni e i rallentamenti che richiedono i viaggi, reali o visionari che siano. 

(da Tgme.it)

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