Giusi Arimatea

TEATRO

BACCANTI

Ad aprire la stagione di prosa del Teatro Vittorio Emanuele di Messina dedicata a Lina Wertmuller le “Baccanti” di Euripide, produzione Teatro Stabile di Catania, nella traduzione e adattamento di Laura Sicignano e Alessandra Vannucci.
Uno spettacolo elegante che trasuda sensualità e armonia, che rapisce visivamente, che si fregia delle musiche, ora energiche ora laceranti, eseguite dal vivo dal compositore Edmondo Romano, che nella cifra registica di Laura Sicignano e nella qualità attoriale dell’ottimo cast trova la strada maestra per la messa in scena d’una tragedia per certi versi enigmatica, comunque sconvolgente in virtù della potenza distruttiva e al contempo vivificante cui si abbandona l’ultimo Euripide.
Dio ambiguo per eccellenza, Dioniso incarna nature plurime. La scelta di affidarne il ruolo all’esile e dirompente Manuela Ventura ben si sposa con la sua indecifrabile essenza, con la mostruosità dell’irrazionale che trafigge l’orgogliosa ragione dell’antagonista Penteo (Aldo Ottobrino).
Il dialogo che Sicignano e Vannucci intessono con la drammaturgia di Euripide conduce a uno spettacolo che preserva l’impostazione generale della tragedia utilizzando strumenti comunicativi inediti, formalmente congrui, che s’adagiano su un orizzonte culturale senza tempo. Non v’è infatti necessità di fornire allo spettatore le coordinate spazio-temporali d’una vicenda ove il mistero del divino fronteggi l’intelletto umano. Le scene di Guido Fiorato, stupefacenti eppure misurate, riverberano una realtà decadente orfana di una precisa epoca e, come tale, estendibile a tutte. Ché il divino e il Caos sono perennemente capaci di identificarsi.
Giochi di luci e strutture mobili, lungi dall’imbrigliare gli attori che destramente se ne fanno carico, hanno dato vita a una dimensione visiva egregio correlativo oggettivo del dramma, corroborandone i significati profondi, aggregandovi una speciale energia. I tagli, i colori delle luci di Gaetano La Mela hanno senz’altro ritemprato un assetto architettonico esanime e classicheggiante. Lo spazio, nella totale rinuncia dei parametri naturalistici e nella scelta accorta d’un universo squisitamente metafisico, acquisisce così un dinamismo tridimensionale che pare conversare con i contenuti verbali dello spettacolo.
Dentro questa raffinata scatola magica, Bacco può divertirsi, giocare a dadi con le vite degli uomini e manovrarli come fossero burattini. Le donne tebane, una volta sconvolte dal dio, danzano come pazze, come fossero possedute e, malgrado ciò, libere d’una libertà che non conosce catene di genere. Il passaggio dal nero al bianco degli abiti, scortato da note tribali, segna l’affrancamento delle baccanti (Egle Doria, Lydia Giordano e Silvia Napoletano) dall’uomo, la brama d’una condizione trascendente, il depennamento delle regole sociali, il ritorno alla natura. E qui, quando già Euripide ha sfatato il mito d’una forza ordinatrice alla base del Cosmo, si percepisce il tocco femminile e rivoluzionario di Laura Sicignano, assistita alla regia da Nicola Alberto Orofino. Non è preclusa la rinascita, quand’anche si danzasse sulle macerie. Il Caos, inteso come rottura delle gerarchie, come disordine che invalida il principio razionale di determinazione, è del resto il dionisiaco che si contrappone allo spirito apollineo. La rilettura delle Baccanti non poteva trascurarne la portata sociale e culturale e la regia abilmente ne traduce luci e ombre.
Gli interventi di Tiresia (Antonio Alveario) e Cadmo (Franco Mirabella) sono lampi di levità e sapienza che si affastellano sul terreno condiviso d’una tragedia nella quale di giorno s’aspetta la notte e viceversa. È l’incravattato Penteo piuttosto a stridere sul medesimo palcoscenico esistenziale: vittima di sé, della ragione, del contrappasso che lo traveste da donna per trascinarlo sul monte Citerone, della madre baccante Agave (Alessandra Fazzino) che lo squarta. Riversa invece colore sulla scena il messo interpretato da Silvio Laviano: schietto, beffardo, dinamico a dismisura. Ratifica lo scontro tra uomini e donne. Lo scontro e la vittoria.
Il linguaggio, in questo spettacolo corale che dà nuova vita e sempre nuovi valori da esprimere al testo di Euripide, è grandemente poetico. Una scelta condivisibile alla luce della raffinatezza formale dell’impianto. L’evidenza degli strumenti significanti, sia che si abbandoni a riflessioni filosofiche il magnifico Tiresia di Antonio Alveario sia che il potente Dioniso di Manuela Ventura sfoggi dall’alto la sua forza divina, sono oltremodo funzionali all’intenso valore semantico della tragedia. Abbassare d’un palmo il lirismo, a vantaggio d’una colloquialità tanto superflua quanto fuori luogo, avrebbe sì potuto aprire un ulteriore varco allo spettatore, ma minando certamente la raffinatezza dell’insieme.
E dalle parole di Tiresia sul mondo che teme la morte, in quell’intermezzo di niente che è nascere e morire, una riflessione su questo tempo di paura e di malattia, dentro i margini del quale chi danza – si direbbe – vince. Poco importa se quelli che ballano sono visti come pazzi da quelli che non sentono la musica. La danza è vita, la follia è vita. E le Baccanti di Laura Sicignano danzano, farneticano, vivono.

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