Giusi Arimatea

TEATRO

DA DOVE VIENI? TERRAFERMA, TERRACHIUSA

“Aria nuova in Me”, siglata dall’Associazione Culturale ARB, è la stagione artistica che nello storico Teatro Savio ha accolto, tra gli altri, lo spettacolo “Da dove vieni? Terraferma, terrachiusa”, ideato, diretto e interpretato da Giampiero Cicciò e Maurizio Marchetti, con le musiche di Giovanni Renzo. 
Gradevole mistura di elementi su cui tirare le fila del dilagante razzismo e offrire una visione diametralmente opposta della diversità, lo spettacolo ha alternato proiezioni, letture, testimonianze servendosi di quel linguaggio visivo-auditivo in grado di suscitare l’interesse etico senza il ricorso a una drammaturgia forte e veicolando piuttosto messaggi largamente fruibili. Non si è inteso con ciò abbassare il livello della messa in scena. Occorreva semmai a due artisti del calibro di Cicciò e Marchetti scegliere il mezzo più idoneo alla comune riflessione sul tema. 
Si parte così dall’assunto che, DNA alla mano, tutti si è “cugini in senso lato” per poi richiamare i principi di quella Dichiarazione universale dei diritti umani firmata a Parigi il 10 dicembre 1948, e mai evidentemente appresa. Il riso di Marchetti durante la lettura degli articoli è assai amaro e a quello deve seguire l’indignazione, unico espediente per resistere. 
Le storie dei giovani migranti giunti in Italia per scampare agli orrori delle terre ove nacquero sono storie di giovani come tanti. Sono futuri da campioni come Mario Balotelli e George Weah. Sono probabili camici di medici. Sono persone qualunque, cittadini qualunque. Cui è tuttavia toccato lottare più degli altri per soffocare la rabbia a ogni nuova umiliazione. 
Il Mare Nostro che non sei nei cieli è la preghiera interrotta da una bambina che vuole comprendere cosa sia il razzismo e vuole essere rassicurata: razzisti, le spiega l’adulto, non si nasce. Ma il Mare Nostro, quando lo si può nuovamente recitare, è lo specchio d’acqua in cui si lascia annegare per negare, da questa recentissima Italia che è terrachiusa. 
Resta tuttavia il sogno di un’utopia sociale. Restano i Domenico Lucano a resistere. Resta la disubbidienza quando gli ordini umiliano le coscienze. 
Le analogie tra eritrei e siciliani in frammenti di storie di cui la lingua restituisce contorni significativi arrivano fino a noi. Metà Europa e metà Africa per tutti. La forza esercitata sul più debole. L’atavica distribuzione dei ruoli, sotto lo stesso cielo. 
C’è chi a ha già conosciuto tutto il male di questo mondo e c’è chi, malgrado ciò, riesce ancora s sognare un mondo meticcio, libero dalla divisione, dal fardello della razza. 
C’è chi preferisce morire in mare una volta anziché in Libia ogni giorno. 
E c’è l’Aquarius. Salvezza che non può essere negata. 
Lo spettacolo si chiude sulle note di “Pata Pata” della cantante sudafricana Miriam Makeba, delegata delle Nazioni Unite e politicamente impegnata contro il regime dell’apartheid. Su quelle note si può solo ballare. Su quelle note di deve ballare. E possibilmente smettere di ragionare su una diversità che è risorsa per questo universo ove tutti, dal primo all’ultimo, hanno diritto di provare a essere felici. 

(da Tgme.it)

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