Giusi Arimatea

TEATRO

DIECI PICCOLI INDIANI

Risulterebbe scontata la considerazione sui romanzi e sulla loro trasposizione, teatrale o cinematografica che sia, quasi mai all’altezza della pagina. Trarre ispirazione dalla letteratura è un compito assai arduo e che cresce, in termini di difficoltà, in misura proporzionale al valore specifico delle scelte narrative. Tuttavia, convenuta l’impareggiabilità del libro, può accadere che l’opera letteraria acquisti sulla scena nuovo vigore, con più o meno esuberanza si imponga in virtù di inedite equazioni, sottraendosi nella diversità a un confronto il più delle volte realisticamente impari.
Così “Dieci piccoli indiani”, tradotto da Edoardo Erba e andato ieri in scena al Vittorio Emanuele, ha puntato sul capolavoro di Agatha e ha fatto centro alla sua maniera, pur sempre nel deferente rispetto della storia e, a differenza dell’adattamento operato dall’autrice nel lontano 1943, del finale.
Il regista spagnolo Ricard Reguant ha di fatto puntato, durante il lento dipanarsi della vicenda, su una diligente caratterizzazione dei personaggi che se da un lato ha dilatato i tempi, dall’altro ha di certo eluso il rischio di trascurare personaggi così sapientemente effigiati dalla penna della Christie. Gli attori Ivana Monti, Mattia Sbragia, Giulia Morgani, Pierluigi Corallo, Caterina Misasi, Pietro Bontempo, Leonardo Sbragia, Luciano Virgilio, Alarico Salaroli, Carlo Simoni: tutti all’altezza del compito.
Non erano dieci piccoli negretti, e nemmeno indiani quegli uomini che sono andati claustrofobicamente incontro al proprio destino nell’isola deserta inscenata da Reguant. Erano, in quel ‘39 che già sapeva di guerra, soldatini costretti a combattere la propria personale battaglia. Sollecitate sadicamente la coscienza prima, la condanna poi.
Un universo alto borghese che si sgretola e si immiserisce innanzi alle proprie bassezze. Senza possibilità di assoluzione. Senza il benché minimo diritto al patrocinio.
Cadono allora uno a uno questi imperfetti soldatini cui la filastrocca aveva vaticinato il destino. E cadendo colmano il comune, nonché attualissimo, desiderio di egualitaria giustizia.
Lo scenario entro cui si sono mossi per oltre due ore i soldatini, in stile Art-Decò a richiamare quegli anni, si è ben prestato ai giochi di luci e alle trovate di Stefano Lattavo, funzionali tutte a creare suspense e a districare senza fatica l’aggrovigliato impianto narrativo.
E quando giustizia è fatta, quando cade l’ultimo imputato, allora cala anche il buio sulla scena. “Si incontreranno i Dieci piccoli indiani là dove non c’è tenebra?” – direbbe Orwell.

(da Infomessina.it)

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