Giusi Arimatea

TEATRO

EPPIDEIS

È un equilibrio instabile, risolutamente votato alla vertigine, la verità. È un’ostruzione che stagna la seduttività dell’inganno, un affaccio sul compassionevole porto ove ogni giorno attracca la piattezza. Così si predilige la bugia e con estrema cura la si confeziona, satura di colori, spensierata, dislocata, stramba come stramba sa essere la vita a puntate dentro uno schermo a tubo catodico che spara Sunday Monday happy days.
Il corto circuito dell’ouverture allora si ammansisce, il credibile per vergogna va a nascondersi e il presente si liquefa in un tempo deciso a tavolino: quello svolazzante e vivace degli anni Cinquanta.
Sedersi alla tavola di Rosario Palazzolo significa sempre accettare le sue regole. Significa avere fede. E attendere pazientemente l’apparizione di quel che lui vuol farti vedere, di solito una rappresentativa porzione di mondo deformato dal super grandangolare cui sa votarsi la sfrontatezza del suo dire. Materia viva, quella del drammaturgo palermitano è infatti una lingua che licenzia la grammatica, che inventa, che gioca e giocando riverbera il disagio, le umane indigenze, i ronzii e i latrati dell’insania.
“Eppideis” (produzione Teatro Stabile di Catania), andato ieri in scena nel nuovo Teatro Futura, non sfugge alle regole, talora sadiche ma pur sempre seducenti, della drammaturgia di Palazzolo, per il quale la parola è un acrobatismo aggiunto, e saliente, al vivere spettacolare, specialmente se si elude la strada maestra della verità e ci addentra nel labirinto della finzione.
Gioni, la tredicenne protagonista per scolpire l’anima della quale Silvio Laviano combina benissimo, entro spregiudicate coordinate registiche, artificialità da attore da commedia en travesti e autenticità, è l’emblema di quel sogno che abbiamo bisogno di sognare per sopravvivere. Il teatro è solo uno dei tanti ispiratori di quella folla di catalizzatori di abbaglio che costituiscono l’arte.
Gioni, dentro i perimetri marcatamente americani della fortunata sitcom ambientata a Milwaukee, con tanto di voci fuoricampo (Cosimo Coltraro, Manuela Ventura, Viola Palazzolo, Rosario Palazzolo) e risolini, oblia il dramma allestito dall’esistenza reale: il divertimento, l’amore, lo stile di vita alla Cunningham sono un perfetto nascondiglio. Noi per primi ci faremmo trascinare dentro se non fossimo così renitenti alla partecipazione, se ci sentissimo meno pubblico e più attori, quanto meno nelle parche modalità dell’agĕre latino. E qui entriamo nel vivo della provocazione di Palazzolo. Il “tutto immaginato” di Gioni va in scena innanzi a una platea di disgraziati, intelligenti, timidi, cretini parimenti astratti, ai quali si dà addirittura a bere che la tristezza non esiste, che una vita spensierata è possibile, che c’è un giorno definitivo e una puntata numero cento da rincorrere per intascare il lieto fine finale.
Gioni sarà anche nata schifa, come la vita cui Palazzolo ha arrangiato il medesimo aggettivo, ma ci sono pose fisse da rubare ai fotoromanzi e un amore da fare penare per intere puntate prima del bacio lungo lungo che, nell’universo magico d’una strobosfera, del lieto fine finale reca già tutte le screziature.
Qui si conclude l’eccentrica lezione sulla vita felice di un Palazzolo cui evidentemente nemmeno più la finzione, distopicamente allestita, convince. Così che quando la verità recalcitra a mo’ di lampadina fulminata, e fa il suo ingresso la vita, occorre orchestrare un nuovo finale. “Sottiletta” ridiventa allora personaggio, della quale spetta al regista muovere i fili: non finisce così, ma così. E intanto si ragiona su quella montagna altissima e impraticabile che sa essere l’arte. Rosario Palazzolo si dirige a mena dito verso la vetta: per vanagloria o necessità? Certo è che una volta lassù, quando la minore pressione dell’ossigeno affatica il respiro, ci si domanda a che serva persino il teatro in un tempo al quale non si addice ambire più a niente. Ché il pubblico stesso, cui destini lo sforzo della creazione, sa essere un’asse scivolosa e incrinata che nulla può e vuol trattenere.
“Eppideis” è la più crudele bugia. E la si legge nello sguardo abbacinato di Laviano, una volta riavvolto il nastro della finzione e smessi i panni del sogno americano sul quale per lungo tempo confidammo. Le allucinazioni psichedeliche sono sparite, la quarta parete nuovamente costruita, il pubblico non c’è più. Il teatro si mescola allora alla vita, l’uno e l’altra confortevoli solo dentro i margini dell’illusione. Tanto vale scassare a forza di picconate la montagna, col rischio finanche di precipitare.
Ieri, per la prima volta, Rosario Palazzolo era nudo. Dentro il suo abito scuro e lineare, in una compostezza perfetta e a dispetto di quello sguardo astuto che gli si riconosce quando maneggia senza cura l’arte, era nudo. Nudo e senza piccone. Lo sguardo, dalla vetta, sulla creazione artistica in procinto di sbriciolarsi. E non riuscire a infliggerle il colpo di grazia.

Lascia una risposta