Giusi Arimatea

TEATRO

IL FETIDO STAGNO

Secondo appuntamento della stagione del Teatro dei Naviganti ai Magazzini del Sale, “Il fetido stagno”. Drammaturgia e regia di Santo Nicito, in scena Lorenzo Praticò. Una produzione Teatro della Girandola che affonda le radici nella sofferenza dei condannati agli ospedali psichiatrici e che presumibilmente punta sulla potenza delle immagini e dei suoni per richiamare alla mente quei manicomi ove l’essere umano, spogliato d’ogni dignità, si dimenava per sopravvivere. A ciò hanno di fatto contribuito, ancora più di un testo che per miracolo stava appiccicato addosso al personaggio, le musiche di Biagio Laponte e il disegno luci di Simone Casile.
Nulla da eccepire sull’atmosfera creata, di forte impatto emotivo, come del resto nessun appunto è da ascrivere all’attore, al quale si riconosce peraltro l’adeguamento fisico e psicologico al personaggio.
Ciò di cui sembra essere invece deficitario lo spettacolo è quel legame inscindibile tra parola e azione al quale deve puntare la drammaturgia. Il codice linguistico adoperato sarebbe stato anche pregevole se si fosse arrestato sul limitate della pagina. L’azzardo è stato materializzarlo sulla scena. Con modalità che erano sì chiare e garbate, ma certamente non plausibili. Non rispondeva insomma alla logica interna della rappresentazione molto di quel che si recitava. L’economia dei gesti era attenta, sorvegliata. Quella delle parole meno. Il legame tra significante e significato disarmonico, sfuggente.
Si dà atto alla cura della drammaturgia da una parte e a quella della regia dall’altra. Mancava però la liquefazione di entrambe nel magma della messa in scena.
“Il fetido stagno” effigiava la sofferenza sul volto e sul corpo tutto del’internato, ma la poesia che echeggiava dalle parole risultava inafferrabile nel contesto sudicio che la accoglieva.
La nenia iniziale faceva da perfetto contraltare all’inferno dantesco ove un uomo aveva trascorso venti anni e due mesi di non vita. L’analessi a richiamare il passato, subito dopo, era tuttavia troppo poco sporca perché potesse risultare credibile. L’innovazione al Diavolo altrettanto posticcia. Ogni gesto del condannato a vivere un pugno allo stomaco. Le parole che avrebbero dovuto imprimergli ulteriore forza invece ne smorzavano l’affondo.
Quando l’uomo si rivolge al pubblico e all’umanità intera che tace e, tacendo, rende invisibili le anime di tutti i fetidi stagni il messaggio punta diritto al cuore e lo centra. Ma è troppo poco un monito per un’ora di occhi e di un corpo che avrebbe meritato la forza della parola capace di sorreggerlo nell’illogicità del mondo, o definitivamente abbatterlo.

(da Infomessina.it)

Lascia una risposta