Un lungo pianoforte e una poltrona sulla scena. Tra l’uno e l’altra si muove Massimo Ranieri, scarpe lucide nere e un papillon slacciato al collo, come reduce da una notte brava. Il dramma si è già compiuto, riviverlo è fare vibrare una volta di più le corde dell’anima, disseppellirne il dolore sì, ma guardandolo con gli occhi lucidi e maturi di un superstite cui la musica restituisce quanto sottrattogli dal teatro.
“Il gabbiano (à ma mère)” di Giancarlo Sepe è dunque un prezioso omaggio al capolavoro di Anton Checov, al giovane che non gli è sopravvissuto e a quel tormento eterno che vivono insieme l’artista e l’uomo, afflitti in egual misura dall’arte e dalla vita, come del resto accadde al drammaturgo russo che su quel dolore edificò tutta la sua produzione letteraria.
Qui v’è però un inedito elemento consolatorio: la musica. E Massimo Ranieri, nei panni del classico chansonnier parigino, da essa trae inusitata forza per alleggerire i carichi di un passato terminato troppo in fretta. Così che da “Avec le temps” di Léo Ferré a “Je suis malade” di Serge Lama, da “Hier encore” di Charlez Aznavour a “Et maintenant” di Gilbert Bécaud, a “La foule” di Angel Cabral interpretata da Édith Piaf, a “La chanson des vieux amants” di Jaques Brel dolcemente si declini lo scacco esistenziale di un uomo, e del genere umano tutto, attorno cui ruota “Il gabbiano”.
I fantasmi del passato irrompono nella realtà infilandosi tra i pannelli neri che recano a lettere cubitali il loro nome. Corrono, si rincorrono, affannosamente si dimenano. Tutti recano un’infelicità indotta e negli occhi un sogno destinato prima o poi a infrangersi.
L’accoglienza che riserva loro Sepe è in linea con la prudenza, nell’operazione registica ardita, per mezzo della quale ci si avvicina alla drammaturgia checoviana. L’adattamento comporta notevoli tagli e deve necessariamente adombrare taluni personaggi. Gli elementi essenziali della trama tuttavia permangono, così che possa ritrovarli lo spettatore esperto o agevolmente apprenderli per la prima volta chi frequenta meno il teatro.
Il regista ha di fatto dialogato liberamente con la scrittura teatrale per rintracciarvi una precisa chiave di lettura, senza mai offuscarne l’essenza originale.
Il fronte sentimentale sul quale ciascuno s’affanna ad aggredire il proprio dramma è manifesto sin dalle prime battute: Treplev ama Nina, Maša ama Teplev. E qui s’arresta la purezza che appartiene ai giovani innamorati. Sul fronte adulto ogni passione puzza piuttosto di ossessione: Irina rincorre Trigorin, a sua volta incantato dalla giovane Nina. Ma il terreno sul quale gli adulti si confrontano è quello del compromesso e a esso soggiacciono, ciascuno opponendo debole resistenza.
Quindi il teatro, e più in generale l’arte, ove si dispiega il dramma del giovane che rincorre il successo e contemporaneamente quello dell’attrice finita che dentro abiti quasi di scena prova a nascondere la propria frustrazione.
A metà tra il teatro e l’amore, da entrambi irrimediabilmente squassato, il rapporto tra una madre e un figlio, ove si innesta la vera tragedia, quella cui Sepe dà ampio spazio avvalendosi del significativo contributo di Caterina Vertova e di entrambi i Treplev, il giovane Francesco Jacopo Provenzano e Massimo Ranieri stesso, al quale compete fronteggiare a posteriori l’aridità materna. Non sfigurano al fianco del primattore Pino Tufillaro, Federica Stefanelli e Martina Grilli.
Si badi però che l’operazione di Giancarlo Sepe parte dall’insuccesso de “Il Gabbiano”, per comprendere il quale Checov chiamò in causa il critico musicale di origine francese Marcel. Da qui la presenza di Massimo Ranieri che, a partire dall’analisi della messinscena, dà nuova vita ai personaggi e ne imperla alla sua maniera ogni battito. Una presenza scenica da mattatore, doti interpretative inusitate e momenti salienti dello spettacolo di cui i suoi acuti costituiscono il pregiato correlativo oggettivo del dolore.
Le scene e i costumi di Uberto Bertacca, forti entrambi di un’essenzialità che non trascura ogni dettaglio, e il disegno luci di Maurizio Fabretti, che si assume il compito di ricreare da solo l’ambientazione, contribuiscono alla riuscita dello spettacolo, scortato per 125 minuti dalle musiche di Davide Mastrogiovanni e dell’Harmonia Team, tenue sottofondo al dramma umano sgorgato dalla penna di Checov e ancora oggi incantevole tutte le volte che dispiega le ali. Perché la morte del gabbiano è pura finzione. Perché il teatro sulla finzione erige nuovo teatro, all’infinito. Perché del caos di immagini e sogni di cui visse Konstantin Gavrilovič Treplev viviamo anche noi. E perché tutto, a teatro, emerge liberamente dall’anima.
(da Infomessina.it)
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