Giusi Arimatea

TEATRO

JUKEBOX ALL’IDROGENO

“Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa…”.

Allen Ginsberg

È arrabbiata, allegra, commossa, graffiante Margherita Smedile. Ed è perfettamente a suo agio negli spazi dei Magazzini del Sale in occasione del reading/concerto, “Jukebox all’idrogeno”. Il titolo è quello del testo nato dalla collaborazione tra il poeta statunitense Allen Ginsberg e il compositore Philip Grass. Una raccolta di poesie, un lavoro erudito, una lettura complessa, delirante, come tutte quelle che trapassano l’anima. 
E Margherita Smedile rompe il ghiaccio nientemeno che con “Howl”, che si dice sia il manifesto della beat generation. Un urlo dedicato al poeta Carl Solomon e che è appunto la prima espressione di una poesia che si nutre dell’universo urbano e tecnologico. Lo sguardo a Whitman, per la modernità epica, e ai surrealisti, straordinariamente visionari. 
Allen Ginsberg è uno degli scrittori grazie ai quali prese vita, tra New York e San Francisco, quel movimento letterario che divenne presto stile di vita, oltreché ricerca di nuove forme espressive. I beats opponevano dissenso politico, individualismo anarchico, utopia della povertà e della vita comunitaria al conservatorismo dell’America di Eisenhower. A dispetto delle regole puritane, praticarono la libertà sessuale, la vita vagabonda, non disdegnarono l’uso di droghe e alcol. Da una parte il rifiuto del razionalismo occidentale, dall’altra le filosofie mistiche orientali entro cui i beats trovarono conferma del loro sguardo critico sulla realtà e nuove strade da seguire. 
Margherita Smedile, accompagnata alla chitarra elettrica da Marco Spadaro, compie un affascinante viaggio nell’universo di Ginsberg e di tutto il mondo contro il quale egli si scagliava. Una forza immane, per certi versi distruttiva, cui l’attrice messinese dà abilmente voce. I rimandi ai giorni nostri e ai mostri che affollano il nostro tempo è inevitabile. Tanto più se alla lettura di Ginsberg si affianca quella di Gregory Corso, poeta statunitense figlio di immigrati italiani che diede voce, nel medesimo contesto, all’emarginazione, alla disperazione, talora velate di ironia o mitigate da quel misticismo orientale che spalancava orizzonti di speranza.  
Un’immersione, senza bombole di ossigeno, nell’oceano di ribellione di cui Margherita Smedile esplora diligentemente i fondali. L’avvicendarsi della lingua originale e dell’italiano nella superba traduzione di Fernanda Pivano, l’alternarsi di lettura e recitazione, il corpo che scalpita, la voce che si presta al canto e chiama in causa per l’occasione “Cosa sono le nuvole”, scritta da Pier Paolo Pasolini e musicata da Domenico Modugno. Versatile sulla scena, Margherita Smedile urla di sdegno come Ginsberg. E il suo è un urlo che non può essere soffocato. Non a teatro almeno. Lì tutt’al più un’attrice lo sorveglia affinché non deragli dalle rotaie dell’arte, le sole in grado di assorbirlo e restituirlo al mondo senza spaventare nessuno. Ciò che ha fatto Margherita Smedile, abile nel dosare la rabbia e dosarsi, autentica nel trasferire sulla scena il grido di una generazione che la società avrebbe preferito imbavagliata, perspicace nell’afferrare l’urgenza, oggi, di quel grido. Oggi che poche voci hanno il coraggio di spiccare il volo e librarsi a grandi altezze, sorvolando la realtà e sbraitandone gli orrori. 

(da Infomessina.it)

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