Giusi Arimatea

TEATRO

LAMAGARA

Sulla scena la fertilità del terriccio e il bagliore di candele accese nella misurata lontananza. Due mani che nell’humus affondano e scavano, per rinvenirvi l’arcaico substrato di una natura aspra e ingenerosa.
Frutti acerbi e fuoco di rabbia nelle notti di luna d’una donna irregolare, fata o strega, lucifera in quell’universo privo di sovrastrutture che rischiara le cose, divinandole.
Calabria, 1769. Cecilia Faragò è l’ultima fattucchiera processata per stregoneria nel Regno di Napoli. Coi suoi decotti di erbe, le ataviche credenze e i supposti malefici, Cecilia è la magara cui si chiede di seppellire i peccati dell’ipocrita consorzio umano e al contempo la strega da lapidare.
Cecilia è la donna che contiene la forza tellurica del mondo. E che pensa. Dotata dunque di quella splendida facoltà che non si riconosce al genere femminile dai tempi di Eva, quando Adamo fu creato per servire Dio e la donna per servire l’uomo.
Cecilia, vedova e madre, è potere e, come tale, fa paura. Spogliata d’ogni bene e refrattaria alle regole d’una finta moralità che associa il matrimonio all’opulenza e non di rado si cela negli abili talari, Cecilia è la colpa dell’universo che l’ha sputata via e, come tale, va espiata. È il frutto marcio da scartare, è il verme di quel peccato che la gente del Sud, prigioniera di una teologia sbagliata, le confeziona su misura.
Eppure Cecilia è lucida, e vera. Casca, si rialza, casca ancora nel disperato tentativo di stare in equilibrio sul filo dell’altrui normalità. Per poi librarsi oltre il reale e urlare lo sdegno di tutto un genere che reclama uguaglianza, e implora a sé redenzione. Entro le eterne dimore di Eros e Thanatos, a espellere vita, a pulsare morte. Rea d’essere sensuale, ammaliatrice, libera.
Il suo monologo smaschera il doppio volto delle umane verità e si nutre di tutta una gestualità che Emanuela Bianchi porta sulla scena con grazia inusitata: misurando ora l’interpretazione e dosando l’energia, ora offendo momenti di perfezione estetica e drammaturgica, finanche sfruttando il proprio corpo come strumento di narrazione.
Il testo, scritto dalla stessa attrice e da Emilio Suraci, è straordinario. Di grande impatto emotivo. E si giova d’un linguaggio terrestre dalle molteplici venature, grazie al quale la parola assurge al ruolo di scomoda verità sulla bocca di Cecilia che non si fa zittire, che non si lascia asservire e che pretende il risarcimento morale.
E tra il frinire di cicale e grilli, Cecilia è libera. Libera come ogni altro essere vivente su questa strana terra che non ammette diversità.
Degna di lode la scelta di inserire il monologo “Lamagara” tra gli spettacoli della stagione invernale del Teatro dei 3 mestieri di Angelo Di Mattia e Stefano Cutrupi. Spiace davvero il quattro giugno si chiuda “Buonalaprima”, ma sono tanti, ora che gli ingranaggi della macchina culturale sono già oliati, i progetti in cantiere per l’imminente stagione estiva. Ossigeno per una città in perenne apnea.

(da Tgme.it)

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