Giusi Arimatea

TEATRO

LE GATTARE JUVENTINE

Con garbo si possono mettere in scena amarezza, rassegnazione, illusione e finanche pagine di storia recente che la memoria ha seppellito da qualche parte e che certo teatro riesuma. Non servono, per far questo, maestosi allestimenti scenografici o compagnie blasonate. Giovano piuttosto cuore, e passione. Giova l’urgenza di condividere quel frammento di realtà che un giorno ti è passato per la testa e che meritava d’essere afferrato.
Paride Acacia ha così afferrato quel frammento della sua storia, della nostra storia, e ci ha imbastito sopra uno spettacolo genuino, gradevole e, senza troppo calcare la mano, potente. Lo spettatore viene risucchiato nel vortice emotivo d’un trauma dapprima familiare, poi collettivo. E quando le immagini e la voce di Bruno Pizzul riportano alla strage dell’Heysel si rivive o si vive per la prima volta quella tragedia cui il teatro di Acacia ha restituito il giusto orrorifico peso.
“Le gattare juventine”, in scena alla Laudamo nell’ambito della rassegna Show Off, sono due smaglianti Gabriella Cacia e Claudia Zappia. A loro quel 29 maggio 1985 ha strappato via il padre. Restano, in eredità, l’amore per la Juve, per Bruce Springsteen e per i gatti. 
Tutto è consolazione e tutto è dolore che si rinnova all’infinito. 
Con un padre assente si diventa geni o criminali. E loro un padre non lo avevano più da troppo tempo. Non era alcolizzato come il padre di Springsteen e non era morto. Ma non era nemmeno vivo. Ché semplicemente da Bruxelles non era più tornato. 
Le due gattare senza gatti sono anime diverse che si confrontano sul medesimo terreno di gioco: quello del dolore. 
L’una mite, fragile, rassegnata. L’altra reattiva, corrosiva, ribelle. Grava su entrambe la perdita. Solo è diverso il modo di fronteggiarla. 
L’indomabilità sputa veleno, la mansuetudine prova debolmente a non lasciarsi inquinare, riparandosi nel cappuccio d’una felpa scura e impilando scatolette di cibo per gatti sempre sul punto di franare. 
Il tempo è tutto e occorre andare a tempo. “Chi non ha il senso del ritmo dovrebbe morire”. Ma il tempo è speranza che si spegne. Il tempo è un cumulo di ricordi distorti dalla percezione. È l’odio ereditato dell’una per Zoff che a quarant’anni necessitava d’un paio di occhiali e per Boniek, anarchico e prostrato dalla marcatura a zona. È il pianto del padre per l’altra dopo la finale persa ad Atene. Ed è pure il tradimento della madre e dello zio Giorgio, grasso, invidioso e interista. 
Il tempo è una manciata di brani di Springsteen. È un album, The river. È quel cuore affamato che tutti quanti possiedono, dalle note di Hungry heart. 
Il tempo sono i biglietti per la finale di Coppa dei Campioni e per il concerto del Boss: due biglietti per quel paradiso che può diventare un inferno. 
Il settore Z trabocca di famiglie italiane. Da casa le due gattare assistono alla tragedia prima e ai festeggiamenti poi. L’esultanza di Platini e la disperazione di due bambine cui il calcio aveva appena strappato via il padre. Al circo quando l’acrobate cade entrano i pagliacci. L’aveva detto Platini. Eppure lo show, come la vita, per quelle due gattare senza gatti non era mai più proseguito.
Quando nell’intercapedine della diversità si scorge un dolore comune allora il puzzle affettivo si ricompone. E da lontano, all’approssimarsi dei cuori, si sentono nuovamente i gatti miagolare.

(da Infomessina.it)

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