Al Clan Off di Messina la prima nazionale di “Malagrazia”, il nuovo lavoro della compagnia Phoebe Zeitgeist.
Quasi un miracolo quello compiuto da Giovanni Maria Currò e Mauro Failla, vista da un lato la rilevanza dello spettacolo e il suo debutto sulle rive dello Stretto e dall’altro, particolare affatto trascurabile, la sperimentazione costante d’una compagnia che guarda oltre l’Italia e che, attraverso la drammaturgia “forte”, archivia il teatro convenzionale e al contempo ritrova quella spinta etica ed estetica capace di operarne il rinnovamento.
L’azione performativa, tendenzialmente in antitesi al teatro ortodosso e alle norme culturali cui questo si piegava, è in “Malagrazia”, come del resto in ogni lavoro della Phoebe Zeitgeist, elemento fondante di una complessa elaborazione di tematiche attuali, per scandagliare le quali occorrono i più svariati linguaggi.
Così che la decodifica del reale, prescindendo dalla formalità più conformista, possa risultare mai banale.
“Malagrazia”, che si fregia della vertiginosa drammaturgia di Michelangelo Zeno e della regia allucinata di Giuseppe Isgrò, è il non luogo entro cui si compie il destino di due fratelli, dapprima imbrogliati nelle maglie di un passato ambiguo, poi finalmente liberi di conquistare la salvezza.
Orfani di un mondo che li ha abbandonati al primo vagito, Sebastiano/Bastiano e Carmelo/Melo sono il paradigma di un essere umano cui tocca dimenarsi in vita solo per scansare la morte. Minacce ovunque, labili i confini, vana la chiusura per eludere quello spazio in cui si muore a ciclo continuo.
Malagrazia è un’isola, è l’entroterra, è un bunker, è una stanza senza finestre. Malagrazia è l’avamposto che vigila sulla pestilenza, sul male, sulla morte. Ed è quel territorio sospeso ove dimorano Eros e Thanatos, l’ordine di una gestualità quotidiana e il caos dei corpi non governati, la speranza e la rassegnazione, finanche il bene e il male, coi loro contorni indefiniti.
Non dà sollievo il sonno, come non dà soluzioni lo studio. Melo e Bastiano sono intercambiabili nella loro apparente diversità, omologhi nel metabolizzare un dolore che ha radici profondissime e complici nell’affrontarlo.
Oltre quelle pareti anguste che proteggono i due “fanciullini”, farfalle che mangiano calabroni, vulcani che uccidono, cadaveri, nemici invisibili, homo homini lupus. Nessuno che viva per sé stesso, tutti a vivere per il proprio assassino. Sotto il giogo di un universo senza grazia. E senza giustizia.
La soluzione parrebbe l’amore, l’amore e basta. Ma è anche quella un’illusione.
Provvisoriamente vivi e adagiati sul’imperituro nulla, i due fratelli di continuo si mescolano, si confondono, si inventano. Nuovi creatori senza creato, s’illudono di generare una specie, per quell’istinto, umanissimo, a fuggire la solitudine, a non bastarsi.
Ma il pescecane è fuori, ed è dentro. Le pupille nere che girano non danno scampo. E ti inchiodano alla realtà.
Magistrale la performance di Edoardo Barbone e Daniele Fedeli, che hanno messo voci, occhi e corpi al servizio di quello sconvolgimento emotivo che un’umanità intera, nelle forme più convenzionali e abusate, non riesce più a rappresentare.
(da Tgme.it)
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