Giusi Arimatea

TEATRO

MISERIA E NOBILTÀ (M. Sinisi)

Sul palcoscenico a scoperchiare una botola di luce, il regista Michele Sinisi ha scandito i ritmi di una storia senza tempo e dischiuso altresì tutto un mondo che affonda le radici nel teatro, nel cinema e che in certa illustre tradizione si rigenera, con inusitata audacia e destrezza fuori dal comune.
“Miseria e nobiltà”, andato in scena ieri al Vittorio Emanuele, aveva già riscosso un grande successo di pubblico e critica. Ci si attendeva infatti di assistere a un’ingegnosa rivisitazione del testo di Edoardo Scarpetta reso celebre dalla pellicola di Mattoli. Eppure l’operazione di Sinisi, lealmente ossequiosa, è risultata ben più ardita di quanto ci si aspettasse, lucida nella ponderazione e geniale nell’imprudenza, caparbia nel perseguire l’intento di restituire la poesia a storie semplici in tempi di complessità, sofisticazione, talora affettata ricercatezza.
A facilitare il compito del regista una fenomenale squadra di attori che ha declinato il testo nei dialetti pugliese ed emiliano, ritratti non adulterati di due realtà diversissime ove tuttavia la miseria pare avere le medesime tinte, i medesimi requisiti. La storia è tipicamente italiana, del resto. Squattrinati che vivono d’espedienti come lo scrivano Felice Sciosciammocca e l’amico salassatore Pasquale, cui dà lustro la magistrale interpretazione rispettivamente di Gianni D’Addario e Ciro Masella. In ritardo con l’affitto, spogliati d’ogni suppellettile e in perenne andirivieni tra casa e banco dei pegni, i miseri hanno fame. L’ingaggio del marchesino Eugenio nell’allestimento d’una farsa che li avrebbe costretti a fingersi nobili in casa d’un cuoco arricchito sembra costituire l’ennesimo espediente per mettere qualcosa in pancia.
La scena “povera” apparecchiata con grande estro da Federico Biancalani lascia dunque spazio al fallace sfarzo che merita la manfrina. E, smessi gli abiti consunti della miseria e improvvisate le pose, i finti nobili si ritrovano sotto un lampadario di cucchiai e mestoli con addosso abiti carnevaleschi e sulla punta della lingua quell’italiano che non vuol proprio saperne di uscire.
Il tutto sciorinato su uno schermo bianco che rilegge la tradizione e che solo alla fine s’alza sulla finzione dell’arte per disvelare il reale.
Il teatro di Sinisi riempie gli occhi d’una umanità, perennemente sulla scena, che diverte e si diverte, quasi a voler esorcizzare la fame. L’affresco è senza tempo. Ché sempre, a guardare oltre il bianco e nero della miseria come anche oltre il luccichio della nobiltà, ci si ritrova a giocare sulla scena. Il ciak del regista è il suono sordo della botola di luce che scatta. Inizia allora l’artifizio, costantemente sorretto da un efficace e solido impianto narrativo che mai ciondola.
E neppure ciondolano i miseri. Ultimi che giocano a essere primi, delusi ma non illusi, semplici ma non sciocchi.
La nobiltà, à bout de souffle, resta un esilarante miraggio.

(da Tgme.it)

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