Giusi Arimatea

TEATRO

PENELOPE. L’ODISSEA È FIMMINA

Prima nazionale in esclusiva per il Calatafimi Segesta Festival 2018 – Dionisiache, “Penelope. L’Odissea è fimmina” è il contributo a una migliore conoscenza della natura umana fornito da Luana Rondinelli attraverso la riscrittura di Omero. I parametri culturali sono quelli attuali, come del resto le modalità di produzione, i materiali e i linguaggi, volti tutti a valorizzare il testo nell’ottica della ricezione da parte del pubblico. 
Il tessuto drammatico si tinge di nuovi colori e a essi corrispondono le scelte linguistiche operate durante la fase di riscrittura. Ogni cosa converge verso quell’armonia convincente del testo prima e dei personaggi che lo vivificano poi. I valori espressi da Luana Rondinelli sono nuovi e attestano la metamorfosi delle concezioni esistenziali femminili, dai tempi in cui la donna si rassegnava al proprio destino a quelli che la incitano, viceversa, a prendere in mano la propria vita, a sovvertire l’ordine delle cose, a ribellarsi, per sopravvivere. 
ll testo di Luana Rondinelli, che ha già ricevuto il premio alla drammaturgia femminile italiana “Anima Mundi” lo scorso 20 marzo al Piccolo teatro di Milano, ha di fatto il pregio di concepire nuovi orizzonti per una Penelope coraggiosa, emancipata, insperabilmente ardita. 
Il passato l’ha segnata, ma al contempo ha fatto di lei una donna che sa ben dimenarsi in quell’universo maschile di padri, sposi e figli ingrati ed egoisti. Dal padre che aveva abusato di lei è fuggita, cercando scampo a Itaca, ove ad attenderla vi sarebbero stati venti lunghissimi anni di attesa. Ai proci aveva riservato il tranello della tela, tessuta e disfatta per procrastinare il giorno della resa a quegli uomini insolenti e beoti. Al fianco di Odisseo aveva caldeggiato il sogno d’una vita felice, infranto dalla di lui sete di conoscenza e da quel profondo egoismo che dimora nel cuore di molti uomini. Infine, aveva cresciuto il figlio Telemaco secondo quei principi di libertà e indipendenza che ella stessa avrebbe reclamato un giorno per sé. 
Penelope, interpretata da una credibile Giovanna Centamore, è regina in terra straniera, è sola contro un mondo che relega la donna tra gli anfratti delle sue stanze. Ed è vittima per lungo tempo di quella paura che la paralizza, impedendole di riprendere la via del mare, di salpare verso mete ignote, di lasciarsi alle spalle il passato e tutto il dolore che soltanto l’amor proprio avrebbe potuto addomesticare.
Lo spettacolo s’apre sugli scambi esilaranti delle tre Parche. Nel riferire le voci che corrono circa il ritorno di Odisseo, una miscela, prevalentemente in vernacolo, di goliardia, contegno e svagatezza che tuttavia non diverge dalla fedeltà nei confronti di Penelope, per la quale le Parche affannosamente tessono e disfano la tela destinata a non avere mai una trama, senza la quale la loro stessa esistenza potrebbe non avere più uno scopo. 
Tutto sembrava finalizzato a un’attesa e tutto avrebbe avuto la sua ragion d’essere al ritorno di Odisseo. Sempre che Penelope si fosse arenata nel tipico e tradizionale cliché della donna succube del caso, dell’altrui volontà, della vita confezionatale dalla sua stessa natura. 
Ma se “l’uomo mancia, vivi e si nni futti, comu tutti l’omini”, perché mai Penelope dovrebbe riconsegnarsi al marito e strapparsi a sé? 
La schiavitù sarà anche “fimmina”, come riconosce Melissa, schiava e confidente della regina di Itaca, nella quale si è tuttavia insidiato il dubbio, si è ormai fatto strada quell’amor proprio e disamore nei confronti del marito, fedifrago e reo d’aver infranto i suoi sogni.
Penelope ha il proprio bagaglio di dolore da portare ovunque vada, ma un ovunque migliore di Itaca potrebbe pur esserci da qualche parte. A incitarla colei che dalla schiavitù s’è affrancata anzitempo, colei che è “fimmina” ancor prima d’essere donna, colei che incarna l’ideale di libertà, colei alla quale la solitudine non fa paura: La Magnifica, proiezione muliebre dell’indovino Tiresia. Penelope a chiederle dove dovrebbe andare “sola e senza un uomo”, ella a congedarla con una domanda retorica che affonda nel ventunesimo secolo le radici della sua portata: “e megghiu di così?”. 
Non sarebbe risultato credibile un cambiamento repentino di Penelope. Tant’è che per lei la drammaturgia di Luana Rondinelli predispone una lesta carrellata su due figure femminili atte a indicarle, coi loro gesti, la strada: Clitennestra che ha scelto la ricchezza di Agamennone, chiudendo un occhio sulla sua caratura umana; Elena, con una bellezza destinata come ogni cosa a sfiorire.
Questa Penelope, che non sembra più disposta ad abdicare alla ricerca personale della felicità, non le invidia. Sente piuttosto che il tempo scorre inesorabile, che per certi versi è già scorso. E deve decidere. La Magnifica ad ammonirla: “Penelope, il tempo non ti aspetta!”. Una “picciridda” strana La Magnifica, che giocava con i maschi e che per questo meritava d’essere rinchiusa. Una donna oggi che sì sfiorisce, ma che reca con sé la consapevolezza d’esser stata un tempo, di aver scelto, di non aver permesso che altri scegliessero per lei. A La Megnifica il cuore non è scoppiato dentro al petto, ché il suo cuore non era pesante come quello di chi è prigioniero. 
Penelope porta negli occhi il dramma di colei che s’appresta a scegliere. Strattonata ora dalla saggezza di Euriclea, nutrice di Odiesso e custode della sua casa, ora dalla lucida imprudenza de La Magnifica. Mentre su tutto aleggia un interrogativo sempiterno: “quanto possiamo sopportare noi donne?”. 
Smorzano i toni del dramma interiore, le sortite dei gemelli Castore e Polluce, Dioscuri gender con abiti succinti e tacchi da entraîneuse, e quelle delle tre Parche. I primi come le seconde affidate agli unici due attori sulla scena, Giovanni Maria Currò e Mauro Failla, ma in entrambi i ruoli conciati al pari delle donne di cui è pervaso il lavoro della Rondinelli, Parca a completare il trio, cammeo sul palcoscenico di questo spettacolo di cui ella è autrice e regista. 
Via via che predispone per sé l’unico viaggio che la porterà in salvo, Penelope prende coscienza della colpevolezza di quelle stesse donne, madri esattamente, che crescono i figli maschi senza curarsi degli esiti, quasi sempre funesti. Ma a lei persino questo adesso poco importa. Ella ha il dovere di cercare per sé quel posto dove il proprio cuore possa trovare pace. Senza smania di appartenere a qualcosa, senza quella voglia di costruire che un tempo l’ha resa fragile. Non ignorando più i segnali del proprio corpo che, “a mani vuote e cosce strette”, reclama semplicemente di esistere.
Sul finale tutto travolge finanche Euriclea, che per una vita s’era raccontata d’essere felice e che però aveva solo ottemperato alle mansioni domestiche, a quel reiterarsi di gesti che all’improvviso perdono ogni significato. E nell’atto di seguire Penelope, in quel mare che accoglie o inghiotte, v’è l’universale ribellione alla prigione, fosse la più confortevole e imbellettata; la ribellione che trasversalmente attraversa tutti gli strati sociali, purché in essi vi regni consapevolezza e un seppur impercettibile alito di speranza. Grazie a ciò, Euriclea può seguire Penelope e condividere il bisogno che la regina ha di volare come le farfalle, senza limiti e senza uomini. Ché del resto pure la follia è “fimmina”.
La Penelope di Luana Rondinelli, cui si riconosce il merito di aver percorso la strada dell’introspezione psicologica per raggiungere l’anima e di averlo saputo fare con quella ironia capace di smorzare la gravezza del dramma, è un ragguardevole esempio di quel teatro contemporaneo che contamina tecniche e linguaggi, che recupera attraverso sottili escamotage il contatto diretto con lo spettatore. 
La scelta del cast, rapinoso e al contempo equilibrato, ha costituito un valore aggiunto al fecondo e meticoloso lavoro di scrittura e all’allestimento che ne ha rispettato l’armonia tematica ed estetica.
Vinta la sfida di approfondire in ottica contemporanea i concetti universali contenuti tre le pieghe della scrittura omerica. Segno, a mio avviso, di come il teatro sia per sua natura destinato a trovare sempre nuove strade e, grazie a esse, reinventarsi all’infinito. 

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