Giusi Arimatea

TEATRO

PER NON MORIRE DI MAFIA

Una gigantesca lavagna d’ardesia sullo sfondo. “La mafia non esiste” dal gessetto che Sebastiano Lo Monaco muove, mosso a sua volta dalla consapevolezza di quanto a quel mostro di cui si vorrebbe negare l’esistenza sia finanche un miracolo sopravvivere.
E Sebastiano Lo Monaco è nientemeno che il giudice Pietro Grasso, licatese cui è toccato l’arduo compito di difendere lo Stato da quella struttura parallela che si chiama “mafia”.
Fascicoli sulla scrivania, le foto dei colleghi Falcone e Borsellino, poco altro attorno a sé. Ché d’una prosa civile restano le memorie, tutta quanta un’aneddotica a smorzarne i toni, retoricamente quanto si vuole i moniti. Ché l’excursus della battaglia di un uomo, alla quale peraltro si ricongiunge quella degli eroi cui casualmente è sopravvissuto, basta a calcare la scena. In perfetta solitudine. Come si confà ai fatti che non cercano apoteosi, agli uomini che non cercano gloria.
Il merito dell’attore, sobriamente magistrato nelle pose, è quello di aver sciorinato una umana emotività che troppo spesso si intende sottrarre ai paladini della giustizia. La paura, la rabbia, lo sconforto, lo sdegno hanno investito anche loro. E se mai vi si fosse insinuato il desiderio, umano anch’esso, di mandare tutto all’aria, lo si sarebbe ricercato tra gli interstizi di quel sentire.
“Per non morire di mafia”, in scena al Vittorio Emanuele, è di fatto l’indagine emotiva condotta su un uomo che ha sacrificato alla legalità la propria vita. Per scelta sì, ma in virtù di un obbligo morale e d’un senso del dovere che non avrebbero saputo immaginare scenari differenti.
E ci sono maniere e maniere di raccontare e raccontarsi. Pietro Grasso, dalla scrittura del quale è nata la pièce diretta da Alessio Pizzech, ha scelto la strada meno adulterata dai ruoli istituzionali e ha imboccato quella dell’uomo. Che poi è la stessa del padre che deve ingoiare le paure e restare abbarbicato nel più scomodo dei luoghi: quello da cui semplicemente guardare. E sperare.
C’è tutto un retroscena, già svelato da certa cinematografia, che deve venire fuori: quello degli uomini. Giudici sì, ma pur sempre uomini. È su quel terreno che si giocano le sfide, su quel terreno che la solitudine inghiotte, su quello che si perde tutto e non si vince mai.
In secondo piano, a teatro, l’aspetto puramente didascalico che esorta a parlar di mafia. Per negare al mostro quel silenzio che è ossigeno grazie al quale riorganizzarsi e rafforzarsi tutte le volte.
Sarebbe l’utopia la chiave di volta per combatterlo. E scriverla sulla lavagna è un po’ come delinearne i contorni. Ora che tutto sfugge e sfuma. Ora che si va di fretta. Ora che la massima individuale utopia è quella di sopravvivere. In questo universo di morti che camminano, più di quanto non lo fosse Borsellino al tempo in cui presagiva la sua stessa morte. In questa platea tristemente scarna alla quale occorre, di tanto in tanto, rinfrescare la memoria. Per ritrovare il senso delle cose.

(da Tgme.it)

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