Giusi Arimatea

TEATRO

SANTA SAMANTHA VS

Nell’attuale società dello spettacolo, ove il vero soggiace alla riproduzione mediatica che ne adultera i contorni e l’improbabile soddisfa il distrattivo bisogno di sensazionalismo, l’uomo è prigioniero di sistemi di rappresentazione che rinviano solo a se stessi. Sono precarie esistenze quelle che sbirciano quotidianamente lo show e, in quanto tali, ne sono fagocitate. 
È nell’intercapedine tra il teatro e la teatralizzazione che si colloca “Santa Samantha Vs. Sciagura in tre mosse” del drammaturgo, regista e attore Rosario Palazzolo, andata in scena ieri al Parco nell’ambito della XXVII edizione dell’Horcynus Festival.
Si immagini una gabbia, un’unica grande gabbia. E si immaginino dentro individui evacuati dalla realtà a muoversi convulsamente entro il perimetro della finzione. L’erosione dei principi etici e il superamento dei confini tradizionali dell’estetica implicano pertanto quella spettacolarizzazione a tutto tondo del vivere cui i personaggi di Palazzolo soccombono a teatro. 
Da una parte l’emancipazione del fatto di comunicazione dal luogo fisico per eccellenza, fortemente agognata dai media, e dall’altro un progetto drammaturgico che esige le medesime dinamiche del recinto esistenziale dentro i confini del teatro, tuttalpiù contaminandone ingegnosamente le forme. Così che l’universo popolare prigioniero della TV non disdegni di recitare la sua parte sulla scena e, nel bailamme di finzione, il teatro continui a ritagliarsi il proprio spazio nello scenario contemporaneo della comunicazione. 
La sciagura in tre mosse di Palazzolo sceglie tre dimore perfette ove collocare anime disgraziate: chiesa, sala di ricevimento e studio televisivo. Una escalation di infingimento che approda al mondovisione e dietro la quale si cela, malamente occultata, la miseria attuale del vivere recitando. Il corto circuito è però dietro l’angolo e coincide con l’apparente tregua di un dietro le quinte sempre più sporadico. Recitano infatti, male quanto si vuole, il professor Nunzio Pomara, le cugine Fatima e Rita, lo sposo Girolomo, la Madonna, Carmela e finanche Santa Samantha, in arte Maria. E recitano male, in contraddizione agli interpreti veri che magistralmente ne indossano i panni, perché le maschere fisse sono pur sempre una zavorra, perché nel gioco senza regole cui sottopone la vita si dovrebbe quanto meno poter saltare un turno, perché dentro si è inevitabilmente altro e ogni tanto ci si ricorda di esserlo. 
La prima mossa della sciagura, “Lo zompo”, è il prologo dell’esistenza d’una Santa, vera o presunta poco importa, ed è la contaminazione coram populo d’una esistenza ordinaria, quella del professor Pomara, cui è toccata l’alunna dai poteri taumaturgici. Samantha Di Blasi, all’anagrafe e sul registro di classe, spruzza miracoli. Una Madonna incarnata da maniare, da profanare. Una compassionevole fanciulla che non appartiene più nemmeno a se stessa e della quale, nel giorno di Maria, occorrerebbe rivelare i prodigi. Tutto come da copione, insomma. Se non fosse che la matematica del professore, di cui Palazzolo ha abilmente ricalcato ogni movimento convulso delle membra, mal si concilia col concetto di santità e l’orizzonte religioso verso il quale la comunità  tende. Non v’è metafisica del resto nella poetica di Palazzolo. La religione altro non è che un elemento, meno significativo di altri pure, di quella spettacolarizzazione del vivere che tutto ammanta, persino il teatro. E, nella sciagura, il sacro sa essere drammatico e parimenti comico; mentre ininterrottamente sposta di qualche metro il limite dell’assurdo e tenta, con presunta scienza, la più dilettantesca esegesi del male. 
Fin dalla prima mossa, una costante nella drammaturgia di Palazzolo, l’uso politicamente scorretto della lingua. I personaggi che sul versante esistenziale rinunciano alla sovversione mantengono un universo linguistico entro il quale esercitare il libero arbitrio. Ne deriva un’anarchia lessicale e morfosintattica, inedita peraltro, che effigia il candore di chi la esercita e intanto strizza un occhio proprio a quel mondo che dalla cavità orale inconsapevolmente sputa perle e perle di filosofia.
Nella seconda mossa della sciagura, “Mari/age”, il ricevimento organizzato dalle cugine per la Santa è di fatto lo spettacolo mal riuscito di un matrimonio artefatto sin dalle premesse. La drammaturgia e la regia condivisa, ché sono Rita e Fatima insieme, non funziona. Il cast è indisciplinato. Le scene e i costumi sono spudoratamente kitch. Mentre Palazzolo se la ride e continua a muovere i fili di quelle marionette che ha concepito già guaste, alle quali lancia noccioline di “Felicità” (quella di Al Bano e Romina) e chance di redenzione che neppure colgono. Persino la Madonna sembra guardarle con disgusto. Tutte hanno abdicato a un sogno. È questo il vero peccato? 
Il pubblico che già aveva recitato la sua parte scandendo il terzo punto della rivelazione dello zompo, l’applauso, partecipa ora ai festeggiamenti per il matrimonio di Samantha e Girolomo. È lo sguardo attento di chi assiste tutti i giorni alla spettacolarizzazione del vivere e ne è assuefatto. I drammi altrui, che rimbalzano sulle coscienze imperturbate dagli apparecchi televisivi, a teatro però non lasciano indifferenti. Così che l’indifferenza quotidiana innanzi al dolore possa per brevi istanti essere scalfita dalla sincera quantunque indotta, si renda merito di ciò a Palazzolo, adesione ora alle due cugine ora al malcapitato Girolomo ora a Santa Samantha, celestiale più della sprezzante Madonna che alla fine dello spettacolo invita il pubblico al lasciare in fretta il teatro con un perentorio grossolano itivìnni.
Delia Calò (Santa Samantha), Viviana Lombardo (Rita), Sabrina Petyx (Fatima) e Alessio Barone (Girolomo) possiedono ciascuno le doti tecniche e psicofisiche richieste dal personaggio, ne comunicano senza forzature le istanze, assolvono al compito, arduo a certi ritmi, di emozionare, commuovere, divertire. 
La prova attoriale che lascia sbigottiti è tuttavia quella di Filippo Luna, alle prese con la vicenda umana della madre di Samantha. Terza mossa, “La veglia” è lo sconvolgente epilogo della sciagura. Spectaculum spectaculorum costruito sul dramma di una madre e dentro a una cornice narrativa che lascia proliferare programmi in diretta. Il teatro si perde, lo spettacolo in mondovisione ne valica i confini, il fuorionda è quel che resta della realtà quando tutto ormai è accaduto ed è pur sempre uno spietato gioco scenico progettato per incrementare l’indice di ascolto. Al televoto è appesa la sorte post mortem di Samantha e il pubblico in sala, cui senza dirlo si riconosce maggiore acume (Se eravate a casa vostra sareste diventati credenti pure voi, sicuro), è per forza di cose sprovvisto di telecomando. I pensieri e i gesti di Carmela, nell’interpretazione superlativa di Filippo Luna, fanno il giro dello studio televisivo e si fissano in una amarissima lacrima: La farete santa, imbalsamata, esposta, toccata. E sarà bellissimo appiccicarvela nei santini, inficcarvela dentro i portafogli. Alla povera madre tocca insomma recitare per rendere credibile e appetibile quella vita vera alla quale la televisione antepone la rappresentazione esagerata del vivere. 
La critica che muove Rosario Palazzolo ai beceri disvalori di questo universo sadico, ipertrofico e affamato di sangue investe principalmente il pubblico. L’attore/individuo, che sia in odore di santità o alzi al cielo la ciottola orata Tappervàr, è assolto. Un’operazione, la sua, che trabocca di cose e che pure sembra un gioco. Tre mosse, su una scacchiera di santi e martiri. Poi lo scacco. 

  1. Lonewolf 62

    Signorina Arimatea, lo penso e lo dico sempre: Lei, per questa città, è sprecata!

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