Un filo rosso che lega profumi e sonorità del Sud d’Italia, da Napoli a Messina, ha ingioiellato ieri la riapertura del Teatro Vittorio Emanuele e l’inaugurazione del cartellone unico di prosa e musica confezionato dai direttori artistici Ninni Bruschetta e Giovanni Renzo.
Dalla Notte degli Oscar, dove “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, tutta impiantata sul personaggio di Jep Gambardella interpretato da Toni Servillo, ha ricevuto il premio cinematografico più prestigioso, al centro del palco del Vittorio Emanuele, con leggio, sedia e fogli sparsi, l’attore e regista teatrale di Afragola ha spifferato un tragicomico aldilà coi versi di poeti e drammaturghi napoletani otto-novecenteschi.
Ora concitato ora canzonatorio, Servillo ha magistralmente saziato il pubblico raccontando una Napoli sgangherata, per certi versi illogica, sgraziata, vera. E lo ha fatto prendendo a prestito i versi di quegli autori frequentati che dalla lingua più irriguardosa hanno generato Arte. Da “Lassamme fa’ a Dio” di Salvatore Di Giacomo che scaraventa in Piazza Dante, a Napoli, il Padre Eterno e San Pietro al “Vincenzo De Pretore” di Eduardo De Filippo, dove un mariuolo rischia di gettare scompiglio nei cieli, Toni Servillo passa per l’umanità meno adulterata che si affanna a “industrializzare la disonestà”. O a riscattarsi dopo la morte.
L’espiazione della colpa è il leit motiv di “A Madonna d’e mandarine” ed “E’ sfogliatelle” del poeta e musicista Ferdinando Russo; e lì subentra la pietà, la propensione delle gerarchie celesti a chiudere un occhio sulla Napoli che ispira simpatia. Poi ancora, la morte bianca di un muratore in “Fravecature” di Raffaele Viviani e “O vecchio sott’o ponte” di Maurizio De Giovanni, in un’atmosfera ossimoricamente onirica e reale che il dialetto partenopeo ha il pregio di rendere musicale. Sono tutte storie di un mondo piccolo che richiama un universo intero, percorrendo le dicotomie di quella società che è sempre la stessa.
In “Sogno napoletano” di Giuseppe Montesano è il risveglio delle coscienze a rimpiazzare l’Apocalisse. Poi però tutto nuovamente precipita. E torna la ferocia del vivere approssimato nella “Napule” di Mimmo Borrelli, nuda e cruda effigie del reale.
L’attore casertano, con fare oltremodo riverente innanzi all’Arte dei suoi conterranei, modula la voce in maniera tale da farla aderire ai versi, quasi nessun’altra lettura fosse possibile. Nel minimalismo della scena, zampilla così la parola. E ipnotizza. Rallegra e commuove.
Un avvincente viaggio senza meta che si nutre d’ogni fermata. “A livella” di Totò, metafora esistenziale dell’inutilità innanzi alla comune destinazione, è il preludio più serio alle spensierate e burlesche canzonette popolari con cui Servillo, senza la pantomima del bis, lascia la scena.
Restano i volti. E resta Napoli. Resta l’omaggio alla vita attraverso la morte. E una filosofia del vivere più ironico. Quando tutto è destinato a finire.
(da Infomessina.it)
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