A Polistena, la restituzione al pubblico del lavoro di ricerca di Tiziana Francesca Vaccaro, durante le due settimane di residenza ospite della Compagnia Dracma per rEsistenze / Residenza Teatrale della Piana.
“Sindrome Italia. O delle vite sospese”, secondo classificato al Premio Ipazia per la Drammaturgia 2019, è il testo sul quale l’artista catanese sta costruendo uno spettacolo che ella stessa dirige e interpreta.
Tiziana Francesca Vaccaro ha dapprima scavato nella vita delle donne cui si ascrive la sindrome che dà il titolo allo spettacolo e che colpisce solitamente le badanti dell’Est Europa al ritorno nel loro Paese dopo anni di lavoro trascorsi in Italia, quindi ha riversato sulla carta quel fiume incontenibile di parole per accogliere e delimitare le quali solo il teatro, certo teatro, può costituire il più felice alveo.
Nel luogo della finzione per eccellenza irrompe dunque la realtà, la più cruda, quella innanzi alla quale ci si vorrebbe girare dall’altra parte. E rompe gli argini dell’io attorno cui ruotano le nostre esistenze, per catapultarci nel mondo che entra nelle nostre case e del quale non ci siamo mai veramente accorti. Quello è il mondo di donne sospese tra il passato, il presente e un futuro persino difficile da immaginare. Donne spersonalizzate dal ruolo che ricoprono e delle quali non abbiamo mai osato immaginare una vita diversa da quella per la quale entriamo in contatto con loro. Ci sono indispensabili, come ci è indispensabile un elettrodomestico, un’automobile, e questo basta.
Tiziana Francesca Vaccaro non punta l’indice contro nessuno. La sua scrittura contiene implicitamente l’invito alla riflessione e, più in generale, alla considerazione dell’altro, ma non reca i segni di alcuna polemica nei confronti di una società che prende a servizio giovani donne e non si cura di approfondirne la conoscenza. Il mondo va così. E va di fretta. E non si ferma a guardare.
Il teatro però scompiglia le carte, muta le prospettive, accende i riflettori sul buio delle cose che abbiamo innanzi e che non vediamo. Il teatro, ieri, ha acceso i riflettori su Vasilica, una delle tante donne cui la vita ha semplicemente strappato brandelli di sé, fino a non farla più riconoscere. Vasilica è partita, tornata, ma Vasilica non è. Vasilica è come quelle rane che si ibernano per sopravvivere e che di fatto non muoiono, ma neppure vivono. Salterebbe lei, ballerebbe, volerebbe e accoglierebbe il bello di quell’universo che ha smesso finanche di immaginare, tuttavia il brutto sogno che è la sua vita la àncora a una terra che nemmeno le appartiene.
Dai colori vivaci di una Palermo che odora di mare alla Milano delle ossessioni, della fretta e del cielo plumbeo che tutto copre, Vasilica trascorre la sua vita nel nostro Paese. Ovunque si trovi, Vasilica non dice. “Muta” è la seconda parola che ha imparato e muta resta per sempre lei, innanzi alle urla di un mondo che – diciamocelo – non ha alcuna voglia di ascoltare le parole altrui.
A Francesca Tiziana Vaccaro va il merito non solo di aver inseguito quelle parole, di essersi fermata ad ascoltarle, di averle assorbite e sentite, ma pure di averle fatte carne, prestando loro un corpo e, soprattutto, una voce. Spostando il centro dell’io, l’artista ha percorso la medesima strada di Vasilica. E lì ella stessa, abbandonandosi alla maniera cui alluse Jacques Copeau nelle sue Riflessioni, si è ritrovata. Un meccanismo infallibile che il teatro ha il dovere di trasferire allo spettatore. Tiziana Francesca Vaccaro, sottraendo la teatralità alla quale intendeva scampare la cifra registica del lavoro, ha dato quindi l’idea di vivere sulla scena le emozioni. La tecnica gestuale e vocale sapientemente adoperata, anche grazie al supporto della tutor attoriale Elsa Bossi, profumava di verità. Per questo ha potuto rinunciare a cuor leggero a quella scenografia, a quel disegno luci, a quell’allestimento definitivo insomma, che la restituzione a Polistena non contemplava. C’era la donna lì, sola, ad adoperare un linguaggio colloquiale declinato per città nelle bocche italiane e senza la minima inflessione che potesse richiamare la Romania nella bocca di Vasilica. Ché Vasilica è dapprima essere umano, poi donna e, come tale, incarna l’universalità della sofferenza per la quale non occorre delineare inutili perimetri. A scortarla, talvolta, la musica composta da Andrea Balsamo, che mette a contatto lo spettatore con un mondo emotivo eretto sulla perfetta corrispondenza fra parole e suoni.
È con semplicità e rigore che Tiziana ha apposto la sua firma alla regia di “Sindrome Italia”, scandendo il ritmo della storia, anzi delle storie che si è inteso raccontare, mescolandole, confondendole, così come la realtà le mescola e le confonde, senza tuttavia perdere di vista l’equilibrio globale del lavoro.
Quando Vasilica ha bisogno di tornare indietro perché non sa più andare avanti, quando i luoghi del ritorno sono i luoghi sconosciuti che l’inclemenza del tempo ha stravolto, quando il respiro c’è, deve esserci, eppure Vasilica non riesce più a sentirlo, allora esplode la sospensione di un’esistenza che il teatro può permettersi di sussurrare. Poi, nel tragitto che compie dalla scena allo spettatore, il dramma può ammutolirsi e spegnersi, o può scegliere di urlare. Nell’urlo si compie il miracolo del teatro che guarda in faccia la realtà e prova a scuotere le coscienze.
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