Giusi Arimatea

TEATRO

UN ANNIVERSARIO

Scrissero che era un autore indecifrabile, eccentrico. Alle sue opere si addebitava vacuità, inconcludenza. Eppure Harold Pinter, cui oggi si attribuisce peraltro il merito d’una eccezionale ricerca stilistica, rimane uno degli autori più rappresentati al mondo. La sua è una scrittura senza fronzoli, ermetica per molti versi, nondimeno raffinata e potente.
E sull’asciuttezza delle parole il teatro di Pinter edifica un mondo a ogni tempo attuale, saturo di drammi, di spietatezze ambigue, di illeggibili e al contempo magnetiche atmosfere.
“Celebration” (Anniversario) è uno degli ultimi lavori del drammaturgo britannico. Scritta nel 1999 e rappresentata per la prima volta all’Almeida Theatre di Londra nel 2000, la pièce si alimenta dei temperamenti, delle imperfezioni, delle frustrazioni di alcune coppie a cena in un sontuoso ristorante londinese.
Il Teatro di Naviganti ha scelto di mettere in scena “Un anniversario”, tratto dall’opera di Pinter, proprio nel fine settimana che culmina con la giornata mondiale del teatro.
La regia di Domenico Cucinotta, dalla cifra stilistica inconfondibile, punta sull’accuratezza formale, sull’essenzialità che raccomanda la scrittura di Pinter, su una artificiosità paradossalmente attendibile. Ché il microcosmo perlustrato, il tempo d’una cena, all’affettazione, talora infelicemente sguainata, ha consacrato tutta quanta l’esistenza. E dentro quei contorni fatui ha lasciato rampollare ignoranza, turpitudine, insincerità. L’affresco è del resto quello della società capitalistica e consumistica, al netto dei valori borghesi tradizionali già morti e sepolti.
A festeggiare l’anniversario di matrimonio sono Julie (Mariapia Rizzo, anche aiuto regia) e Lambert (Domenico Cucinotta). Già alle prime battute sull’anatra, per nulla sovraccariche ma pregne d’un significato che va ben oltre la scelta personale delle pietanze, si palesa l’ordinaria insipienza dei commensali. Ciascuno disastrosamente concentrato su di sé, tendente a parlarsi addosso, votato alla scena più di quanto non lo sia l’attore stesso, inidoneo tuttavia all’occultamento delle fisionomie più inservibili.
Allo stesso tavolo Matt (Sergio Runci) e la moglie Prue (Stefania Pecora), l’uno fratello di Lambert e l’altra sorella di Julie, giusto per potenziare le grette peculiarità dei due fronti. E non è questione di universi dissimili per genere. A declinare le specificità degli individui di Pinter sembrano essere, più semplicemente, le vite vissute o non vissute, i ricordi d’un passato condiviso e condivisibile, la rassicurante complicità che gli attori rinsaldano a ogni gesto, a ogni sguardo, a ogni ammiccamento nel nugolo di staffilate generali.
A un altro tavolo siedono l’ambiguo banchiere Russell (Gabriele Casablanca) e la moglie insegnante Suki (Chiara Trimarchi). Una coppia male assortita si direbbe, se entrambi non sprofondassero parola dopo parola nelle medesime acque limacciose della pochezza, del solipsismo incosciente.
I due tavoli, messi alternativamente a fuoco dalle luci calde che a loro volta alimentano la bollente atmosfera, mancano l’appuntamento con la cognizione del reale. Ed è un misto di ignoranza, smemoratezza e superficialità. Nessuno dei commensali è in grado di riferire a che genere di spettacolo si sia assistito poco prima. I ricordi di ciascuno, palesemente infarciti di fandonie, senza per questo risultare più accattivanti, sono lacunosi, oltremisura frivoli.
Le interruzioni stravaganti, quantunque garbate, del cameriere (Lorenzo Rigano) risultano infatti più avvincenti, colte e finanche credibili del vociare finto e inutile di tutti i commensali messi insieme.
In lontananza, le pose plastiche del maître d’hotel Richard (Dario Blandina) e della sua assistente Sonia (Elvira Ghirlanda) e il fare affettato di entrambi al cospetto dei clienti suggellano l’atmosfera di finzione entro cui si posa una pièce che non aspira al corto circuito, quanto piuttosto a una corrente continua di simulazione, limitatezza, grossolanità.
Sul filo teso della misura prescritta dall’inappuntabile regia di Cucinotta si è mosso, in perfetto equilibrio, un cast sì composito per esperienza e professionalità, ma non per questo meno affiatato e adeguato. La partita, giocata sul terreno delle umane stonature di cui abbonda il teatro di Pinter, è stata vinta seguendo lo schema più penetrante e appropriato, quello dell’armonia. Così che lo spettatore potesse essere agilmente traslocato in una dimensione surreale molto molto somigliante alla vita e poi rimanere lì, all’ultima parola del cameriere, con l’amaro in bocca che solo la realtà sa generare. In testa una domanda: se è questo il genere umano quale tragico destino ci attende?

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