Giusi Arimatea

TEATRO

UN UOMO A METÀ

“Non è vero che si muore sul colpo”. Ed è da questa amara considerazione, per comprendere fino in fondo la quale si deve attendere il finale, che si svolge l’intricata matassa d’una esistenza come tante.
In scena nell’accogliente spazio del Clan Off, ove ci si sente tutte le volte a casa, “Un uomo a metà” di Gianpaolo G. Rugo. Gran lavoro di cesello su un testo perfetto nei ritmi e nelle scansioni teatrali,  dirompente nella capacità affabulatoria, arguta nel disseminare epifanie, limpida nel tradire l’inconfessato.
Gianluca Casale è il superlativo uomo a metà che stordisce, disorienta, rallegra e rattrista ogni momento gli spettatori. Senza residui l’attore aderisce al personaggio e schiettamente ne trasferisce la verità emotiva. L’effetto è folgorante e a ciò contribuisce la regia di Roberto Bonaventura, che ora allenta i freni inibitori dell’uomo ora gli impone contegno, affinché possa illusoriamente muoversi in autonomia, pur claudicante, e poi più realisticamente paralizzarsi sui pochi centimetri quadrati assegnatigli dal destino.
Si ha dapprima l’idea che il povero Giuseppe Rossi, ex promessa del calcio e commerciante di articoli sacri, sia solo un Alfonso Nitti del ventunesimo secolo destinato a schiattare per inettitudine o volontà, e in ogni caso rinunciando alla vita. Tutto quadra se lo si circoscrive nell’ambito delle sue disgrazie: l’infortunio a centrocampo; l’impotenza causatagli dalla statua della Madonna del Sacro Cuore di Maria che, braccia larghe e mani aperte, è come se volesse abbracciarlo; le oscillazioni di mercato che travolgono il brand più sicuro, quello della chiesa; il tradimento della futura moglie a metà col cugino ricco e detestabile.
Eppure niente è come sembra. E la stessa memoria di Giuseppe, in quel processo farraginoso che mira a recuperare e trasfigurare il passato, tradisce in modo iperbolico la realtà. Correva e aveva buona volontà il calciatore, ma non era lui il numero 4 destinato alla massima serie; l’impotenza recitava a soggetto; gli oggetti sacri sarebbero sopravvissuti a Ratzinger e non sarebbero mai passati di moda; il tradimento di Maria non era affatto un colpo al cuore.
Dal bagno di arroganza al delitto finale è dunque un crescendo, in termini di superomismo, dell’uomo. E Giuseppe resta lì, con tutte le sue miserie, a scrutare la morte lenta. A confondere sangue e smalto. Ad annientare il futuro. A urlare per ritrovare quel primordiale istinto che il mondo continuamente gioca a sopprimere.

(da Tgme.it)

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