Il silenzio nel foyer dei Magazzini del Sale, ieri, era pesante.
Quello del teatro indipendente – si sappia – è un mondo frequentato da un numero contenuto di persone. Ci si conosce, ci si ritrova con piacere nel fine settimana, spesso si scambiano due chiacchiere. Non v’erano assembramenti prima e ahimè non ve ne saranno dopo, a pandemia finita. Il silenzio parafrasava una profonda amarezza. Le misure contenute nella bozza del nuovo DPCM non solo vanificano gli sforzi per adeguare alle norme spazi che, al netto del distanziamento, possono accogliere poco più di venti spettatori, ma pure ammazzano una volta di più l’ostinazione di chi resiste e, tra mille difficoltà, prova a produrre bellezza in direzione ostinata e contraria alla monetizzazione del vivere.
Nel totale rispetto delle norme anti-Covid, il teatro continua a essere uno dei luoghi più sicuri. Eppure si sceglie di sacrificarlo. Continuiamo a non comprenderne la ratio, ma siamo convinti che trascurare la cultura, negare un servizio necessario alla società confliggano con l’urgenza di sostenere l’individuo in questo particolare, per molti versi indecifrabile, momento storico.
E che il teatro possa arricchire l’anima, temporaneamente posponendo al materiale l’altrettanto indispensabile immaginario, ce l’ha ricordato un monologo concepito proprio durante il lockdown. La scrittura sa essere una eccellente via di fuga, la prospettiva del palcoscenico il migliore antidoto allo smarrimento dei lunghi mesi senza teatro. “Volta la carta. I tarocchi di Faber” è il frutto dell’incontro tra Anna Mazzeo e Davide Colnaghi. Il testo originale scritto a quattro mani, la regia di Anna, sulla scena Davide. E tutto questo per individuare gli Arcani della vita di Fabrizio De André, scoprendo una carta alla volta, ripercorrendo le tappe significative del suo percorso umano e artistico, tra immagini, aneddoti e soprattutto canzoni. “Racconto di re e giudici / furfanti e prostitute / di santi, di sudici / di donne e di bevute…”.
Lo spettacolo s’apre sui versi d’un cantastorie che non lesina giovialità e prosegue lungo la scia di un’esistenza giovane, anticonformista, anarchica, liberale. Tra alcol e sigarette, musica e poeti russi, agli Arcani maggiori si deve la costruzione di quel castello di tarocchi liguro-piemontesi che fa da scenografia allo spettacolo di un Destino avviluppato alle carte. Ed è un avvincente andirivieni di Sole, Luna, Stelle quello entro cui cresce e tracima l’anima inquieta di Faber.
Tra i carruggi di Genova e i paesaggi rurali della Sardegna, Fabrizio De André ha fatto incetta di sogni, illusioni, di morte e di vita. Davide Colnaghi, al quale si riconosce una spiccata attitudine ad attingere nel proprio personale universo al fine di collegare l’attore al personaggio, ha restituito un frammento cospicuo di tutto ciò che il cantautore recapitò al mondo, vivendo e scrivendo, nel costante desiderio di spiegare e la persistente paura di non essere compreso. Persino cambiando, voltando le carte del suo destino sul limitare del primo matrimonio, quando all’orizzonte apparve finalmente una donna in grado di accettarlo così com’era.
Non mancava il coraggio a Faber, non mancava il piacere di vivere nella luce e trovare però i suoi momenti più veri nel buio. Lo stesso buio che interruppe la sua felicità e quella di Dori Ghezzi nei centoventotto giorni di prigionia che seguirono al rapimento. In mezzo tanta musica, tanta politica, tanta anima scandite da quei brani che, chitarra in mano e gran cuore, Davide Colnaghi fa risuonare a teatro. Da Il fannullone a La città vecchia, da Bocca di rosa a La canzone di Marinella, a Il cantico dei drogati, Il testamento di Tito, Il suonatore Jones, Il bombarolo, Amico fragile, La cattiva strada, Hotel Supramonte, Quello che non ho, fino alla chiusura toccante che regala al pubblico l’inganno di un’anima salva “senza calma di vento / solo passaggi e passaggi / passaggi di tempo”. Il castello di carte è lì. Quei tarocchi scelti per l’ultimo tour restano il prezioso specchio della sua anima. Ad Anna Mazzeo e Davide Colnaghi il merito di averle voltate, con garbo e inusitato riguardo, una volta di più. Nell’ostinatezza e nella contrarietà di questo tempo, a ogni tempo somigliante e a ogni ora instabile.
(da Infomessina.it)
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