Giusi Arimatea

TEATRO

CONTRADA ACQUAVIOLA N. 1

Velieri di carta sulla scena e un pensionato alle prese con l’albero maestro di quell’Amerigo Vespucci che, istruzioni alla mano, vorrebbe costruire. 
Il mare è come dentro casa. Nella Contrada Acquaviola che un tempo tracimava solo di mandarini, di salsedine e di aria pura.
A interrompere la quiete, di tanto in tanto, un rumore come di sirena, cui il rosso delle luci quasi affibbia un allarmismo puntualmente trascurato.
Tutto appare normale. E tutto procede regolarmente. Almeno fino a quando la realtà si deforma innanzi agli occhi di un giovane al quale ancora compete la costruzione del proprio futuro. E in quell’istante, di sghembo, irrompe il desiderio di scansare la morte. Ché lì, a due passi da quel mare malato e sotto quel cielo che negli anni ha cambiato colore, ci si ammala. Ché lì non v’è scampo all’avvelenamento. Ché su Contrada Acquaviola rintocca, come campane, la sirena della raffineria. A scandire le ore. A ricordarti che il denaro passa sopra la morte, che se ne infischia finanche del diritto alla vita. 
Allora si rompe in mille pezzi la quotidianità di un padre e di un figlio, le cui conversazioni contenevano affetto, divergenze, facezie del vivere come a voler esorcizzare quel senso di morte che aleggiava in casa, che entrava dalle finestre, che imponeva pause al profluvio di parole. 
Il matrimonio con Caterina da organizzare, una lista di invitati che si allungava all’infinito, un salotto da cambiare e cose così. A riempire i vuoti di due generazioni diversissime, per le quali solo l’affetto e la routine possono allestire quello scenario comune su cui fermarsi, con una sedia e una sediolina. Comode entrambe. 
Paolo si prende cura del padre e il padre, alla sua maniera, si prende cura di Paolo. Che poi rimane sempre Paolino, a dispetto degli anni. 
E tra un albero maestro e un invitato, tra un arancino di Savasta e un caffè, entrando e uscendo dalla scena come da una stanza, la morte e la malattia. Buttate lì tra i discorsi leggeri, quasi a voler passare in sordina. Quella della moglie di un invitato, scomparsa pochi mesi prima a causa di un “brutto male”. O ancora il figlio “scimunito” di Renato e della moglie, che lavorava in raffineria. 
Al padre tutto sembra regolare. Il figlio incamera. Sono rispettivamente Antonio Alveario e Simone Corso a interpretare questi due deliziosi personaggi sgorgati dalla penna dello stesso Corso, cui si riconosce il merito di aver lasciato decantare il dramma prima di lasciarlo esplodere. Così che aleggiasse sulle cose, senza la pretesa di scombinarle. E solo innanzi all’ennesimo indizio potesse costituire una prova.
Il tumore all’utero della mamma di Caterina è la reiterazione di un dramma già vissuto. Ché dello stesso tumore s’era ammalata la madre di Paolo. 
Non possono essere coincidenze. Occorre solo il coraggio di guardare in faccia la realtà. 
Ora, va bene lo si pretenda da un giovane. Ma a un vecchio come si chiede di abbandonare una vita intera, come si biasimano le menzogne che si racconta per negarsela, la realtà? 
Laddove finivano i mandarini, è vero, cominciava il mare. Ma la raffineria ha dato da mangiare a tanta gente. Ha solo portato fortuna. 
La puzza, il fumo nero, la malattia, la morte passano in secondo piano. E che quello sia il paese delle parrucche è solo un’invenzione dei giornalisti. 
Quando Paolo va via da quella tomba con le finestre che è la loro casa, il padre gli urla dietro che lì lui non potrà più mettervi piede.
Il dolore che sragiona. 
Una porta sbattuta. Poi solo velieri di carta da distruggere. Ché tanto i giovani non si accontentano più di salpare per finta. Ché la raffineria ha praticamente affondato ogni cosa. 
Penultimo appuntamento della V stagione di Atto Unico, in “Contrada Acquaviola n. 1” confluiscono l’aggraziata drammaturgia di Simone Corso, l’abilità attoriale sua e di Antonio Alveario, le poetiche architetture di origami su carta di Nunzio Laganà, gli elementi scenici di Franco Currò, le luci di Stefano Barbagallo, irrefutabilmente nodali nel dipanarsi della storia. 
Il disegno registico di Roberto Bonaventura, coadiuvato da Adriana Mangano e Andrea Messineo, armonizza di fatto i codici artistici coinvolti e si pone al servizio di quell’equilibrio globale che la messinscena raggiunge nella magica corrispondenza di tutti i suoi linguaggi. 
Lo spettacolo, prodotto da Nutrimenti Terrestri e Castello di Sancio Panza, rivela dunque l’autentica natura dell’autore, degli interpreti e del regista che li ha votati a un rapporto significativo con la platea. L’estro, in una parola, che apre nuovi orizzonti, nel recupero tuttavia di quelle condizioni primitive e inconsce grazie alle quali si può ancora decifrare la realtà.

(da Tgme.it)

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