Giusi Arimatea

TEATRO

IL GUARDIANO

La stanza che sembra un magazzino, gli oggetti più inutili accatastati e impolverati, due reti e due materassi, una finestra, un secchio sospeso a raccogliere gocce d’acqua. Ché piove sempre su certe vite. E “non servono tranquillanti o terapie”, come rammenta la dolce voce di Alice che canta Battiato mentre la stanza risucchia il primo personaggio e poco dopo lo sputa via per lasciare spazio a un clochard e a un uomo dai tratti spiccatamente psicotici.
Sulla scena della sala Laudamo “Il guardiano” (The caretaker) di Harold Pinter, diretto da Roberto Bonaventura. Ed è il teatro dell’assurdo, quello che guarda alla complessità della mente umana, che aliena e disintegra i personaggi mediante un mezzo potentissimo: la parola.
Cosicché in quella stanza le parole riproducono essenzialmente la natura insensata delle conversazioni quotidiane. Spetta ai tre interpreti, Antonio Alveario, Alessio Bonaffini e Francesco Natoli, ornarle di tutta una gestualità che traduce le nevrosi, i più indigesti deficit, finanche l’inadeguatezza al reale.
Tra il barbone che ostenta savoir vivre e cammina sui suoi sandali e l’alienato che lo ospita non v’è scambio alla pari. Il primo comprende presto di poter soggiogare il secondo, approfittando d’una generosità malata e del tutto inconsueta.
Ben diverso il rapporto tra il barbone e il proprietario di quella stanza, un soggetto smilzo e agilissimo nel dimenarsi sulla scena come nel profondere parole.
Sono sottilissimi i giochi di potere, più o meno consapevoli, tra i tre. A fasi alterne si domina e si è dominati. Ciascuno difende un territorio inesistente ove dimora l’assurdità kafkiana di un intero universo.
Il barbone diviene custode, ma sarebbe potuto diventare autista, impiegato, banchiere. Nulla sarebbe cambiato e nessun nuovo orizzonte gli si sarebbe prospettato innanzi. Ché le solitudini agenti sempre si incartano tra il dovere di fare e quello di riuscirci. Allora restano lì, immobili, senza nemmeno la pretesa di costruire il sé più autentico.
Tutti affogano nella presunzione, nell’illusione, nella falsità. E il microcosmo di segregazione entro cui i tre balordamente si muovono assurge a metafora dell’esistenza.

(da Infomessina.it)

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