Giusi Arimatea

TEATRO

KEAN

Debutto al Clan Off dello spettacolo “Kean”, evento speciale fuori abbonamento, che prende le mosse da un testo di Raymund FitzSimons sul più grande attore teatrale inglese e che, diretto da Adriano Mangano, letteralmente si affida al talento di Alessio Bonaffini per comunicare l’essenza di un’avventura umana attraverso la potenza catalizzatrice dell’arte. 
Nei suoi indumenti semplici e dentro quel dolore che lo sguardo allucinato non prova neppure ad adombrare e che nulla può di fatto lenire, Edmund Kean esorta il pubblico a non dare consigli. Ché la disperazione non ammette sortite da parte di quella quarta parete attraverso gli occhi della quale Kean ha già misurato tutta quanta la sua vita.
E innanzi al termometro delle sue prestazioni artistiche, l’attore indossa una giubba variopinta da buffone e inizia a raccontare la sua storia.
Si diceva fosse figlio d’una prostituta e d’un alcolizzato. Un destino segnato, la fame per dieci lunghi anni, e un sogno da inseguire. “O Cesare o nulla” era il suo motto. E negli occhi il Drury Lane e il Covent Garden, al tempo in cui la desolazione e lo sconforto della provincia lo avevano intrappolato nella famosa maschera bergamasca della commedia dell’arte. 
Ma Kean Arlecchino era solo per necessità: una moglie e due figli da sfamare reclamavano compromessi o un lavoro vero. Il sempiterno dramma dell’uomo che rincorre i propri sogni e contemporaneamente fa i conti con la cruda realtà. 
Talora assennato, più spesso sconsiderato nel vagheggiare il successo che aveva sempre creduto di meritare, Kean di tanto in tanto recitava Shakespeare. Indossava gli abiti di Amleto, ma la fame subito dopo glieli strappava e nuovamente lo costringeva alla giubba di Arlecchino. Avrebbe dato la propria vita ai figli, se solo la vita gli fosse appartenuta. Ma quella ormai apparteneva solo al teatro. Kean viveva le tragedie shakespeariane, la sua famiglia la miseria. A volte si domandava se non fosse necessario attraversare l’inferno per raggiungere la luce, ma la luce pareva sempre spostarsi di un metro più in là. 
Dal Macbeth, “La vita non è che un’ombra che cammina, un povero attore che si pavoneggia sulla scena, per un’ora, e poi non si ascolta più”. Ma Kean, malgrado ciò, andava avanti. 
Oltre la vita e oltre la morte, quella di un figlio cui gli stenti hanno ucciso il futuro. 
Kean è stato fagocitato dal suo sogno, dalla sua genialità inflessibile, da quella sfida che aveva sottomesso al teatro la vita. Kean malamente si trascinava nel mondo, abbandonandosi al sesso e all’alcol, salvo poi ricomporsi sulla scena. 
Arriva la gloria, ma è effimera come è effimero il tutto entro cui un’esistenza qualunque rincorre una parvenza di senso. L’oscurità cede allora il passo alla luce, puntata su Shylock il giorno del debutto al Drury Lane. Le tenebre appena dietro l’angolo. E di lì a poco la dissolutezza di Kean oltre la scena a fare il suo ingresso a teatro, per inchiodarlo. 
Tra i tormenti e i deliri di una creatura fragile che confonde ormai vita e arte, si compie il destino al quale solo il palcoscenico poteva rinviare la morte. Eppure Kean è dentro il suo Otello che rinuncia alla vita. In quell’ultima interpretazione al Covent Garden, quando d’improvviso crolla, implorando il figlio di annunciarne la morte. Spettacolare anch’essa, come spettacolare Kean aveva scelto fosse la sua vita. 
Alla regia di Adriana Mangano la costruzione dell’evento, cui hanno contribuito scene e costumi di Liliana Pispisa, e dell’identità intima prima ancora che comportamentale di quel personaggio al quale presta anima e corpo Alessio Bonaffini. Straordinariamente dotato, Bonaffini supera per Kean i propri limiti fisici e psicologici, si mette a nudo, riversa sulla scena la verità della sua adesione personale e sottrae all’azione quella teatralità che la maschera di Arlecchino aveva invece imposto a Kean. E non v’è distanza tra l’uno e l’altro attore, avvinghiati sul medesimo terreno emozionale che li condanna a recitare, per vivere o morire.

(da Tgme.it)

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