La libertà di scelta, con implicazioni in ambito religioso ed etico, si scontra con le varie concezioni deterministiche secondo le quali la realtà è in qualche modo predeterminata. C’è dunque una linea sottile di demarcazione tra il libero arbitrio e il destino. Lì si compie la parabola esistenziale dell’uomo, perennemente scisso tra il desiderio di volgere le cose a proprio favore e quello di lasciarsi fluire, abdicando alla pretesa di esercitare il potere di scelta, gravosa assunzione di responsabilità.
Rosario Palazzolo ha spiato dal buco della serratura l’individuo che si apparecchia con ubbidienza alla morte e tuttavia avverte quell’istinto di autoconservazione, forma biologica inconscia, che lo avvinghia ostinatamente alla vita.
“Iddi. Trittico dell’ironia e della disperazione” (Editoria & Spettacolo, 2016) contiene tre testi teatrali incentrati sul tema dell’impossibilità. A precedere cronologicamente Letizia forever e Portobello never dies quell’impietoso Ouminicch’, andato ieri in scena al Teatro Primo di Villa San Giovanni, che ti sbatte in faccia l’impotenza dell’individuo nell’atto di procrastinare la morte, mentre su di lui incombe il destino, architettura che non lascia margini di intervento.
Testo e regia di Rosario Palazzolo, per l’occasione anche Trentaquattru, il diretto concorrente di Salvatore Nocera, Trentasetti, in quel folle gioco che mette in palio la sopravvivenza. Una cooperazione Teatrino Controverso e T22, con la collaborazione di A.C.T.I. Teatri Indipendenti. Le scene sono di Luca Mannino e giocano abilmente coi colori di un interno concettualmente claustrofobico eppure allegro nei cromatismi della cassa da morto fucsia, del telefono giallo e della porta verde menta sullo sfondo. Come a rifare il guardaroba alla morte.
Trentaquattro e Trentasetti devono rispondere alla chiamata del destino, per poi giocarsi la salvezza sul terreno della parola, ove non ci sono regole, ove è consentito barare. Ché se perdi non puoi neppure chiedere la rivincita.
Nell’attesa monta la tensione, amplificata dai silenzi negli interstizi dei quali si insinuano furtivamente gli scambi tra i due, fino a colmare ogni vuoto, fino al battibecco dell’ultimo fotogramma, mentre sfumano le luci e le parole addirittura si accavallano. Giacché parlare potrebbe significare sfuggire al destino, ritardare il silenzio definitivo.
Trentaquattro e Trentasetti sono in fondo due condannati che si illudono di farla franca, malamente celando la paura e ammazzando il tempo discorrendo sul nulla delle cose cui non vorrebbero entrambi rinunciare. Incombono allora i segni sparsi di una religiosità e di una superstizione che potrebbero tornare utili. Ciascuno può leggerli a proprio modo. Conta la manipolazione degli indizi al fine di profetizzare la propria salvezza.
Ma a dare consistenza a questi personaggi beckettiani sgorgati dalla penna di Palazzolo è un’imponente babele di parole avviticchiate tra loro e inconsapevolmente adagiate sulla partitura musicale della sciagura.
Alla morte non si scampa. Il suicidio è il miserrimo tentativo di eluderla. E se intravedi una via d’uscita hai innanzi una porta da abbattere, salvo poi ripararla con l’attrezzatura che porti in dote dalla vita. Che poi quella era salvezza?
Il dialetto palermitano, componente drammatica di prim’ordine nell’universo poetico di Palazzolo, mescola ironia e fatalismo, contiene già tutti i presupposti di quella giostra emotiva sulla quale sono saliti, loro malgrado, Trentaquattro e Trentasetti, magistralmente interpretati da due attori che hanno scandito il tempo delle parole in base alle tacite indicazioni metronimiche della scrittura.
Trentaquattro e Trentasetti siamo tutti noi. Al bivio di un’esistenza che non abbiamo mai compreso veramente. Animati dall’imperscrutabilità del dopo che esige, quando siamo già “belli cunzati” per la morte, il compassionevole disperato tentativo di restare vivi.
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