Giusi Arimatea

TEATRO

QUADRI DI UNA RIVOLUZIONE

La rivoluzione può essere concepita in maniera oltremodo personale. Ciascuno intraprende quotidianamente la propria rivoluzione per resistere agli urti della vita che il sistema ha cagionato. Allora si prova a sovvertire l’ordine prestabilito. In silenzio o urlando, andando controvento o più semplicemente seguendo la scia, restando indietro di qualche metro e all’occorrenza eludendola. Conta poco il “fuori”, men che meno chi ha solleticato il nostro istinto alla ribellione. Conta piuttosto il modo in cui ci si organizza, in quanti ci si ritrovi nella condivisione di un obiettivo comune. Conta il nuovo regolamento e conta quel senso inconsueto e confortevole di sicurezza che ne deriva. Dentro uno stadio recintato, tre uomini cui spetta, come si confà in ambiente militaresco, un numero e non un nome allestiscono la galleria della loro personale rivoluzione. Alloggiano dentro una porta, si avvicendano durante le ronde notturne, talora prelevano, mai rubano, oggetti inutili da riciclare per scopi improbabili.
Devono sfamarsi e già al secondo quadro 584, incaricato di prelevare una mucca oltre il recinto d’un secessionismo ancora tutto da decifrare, torna trascinando una donna catturata con una corda. Quanto basta, fin qui, a Tino Caspanello per stuzzicare la curiosità dello spettatore. Gli indizi disseminati tra i fitti dialoghi dei tre, prima dell’ingresso in scena della donna, sono buoni per architettare un contesto surreale e grottesco, sciolgono pochi dubbi sui tratti caratteriali dei personaggi, ancora meno sulla fondatezza delle ragioni che li accomunano in quel luogo così maledettamente frequentato nelle domeniche di campionato. Sa essere triste, del resto, un rettangolo di gioco nella notte.
In “Quadri di una rivoluzione” il drammaturgo di Pagliara ingaggia un’autentica sfida con i silenzi che abitualmente abitano i suoi testi. Impedisce loro di varcare il perimetro ove si muovono i personaggi e dentro, piuttosto, sparge parole a fiumi. Una procedura inedita: sono i dialoghi, densi e roboanti, a dover comporre il quadro silenzioso della cronaca di un tempo sfumato e vago al quale difficilmente due o più menti assegnerebbero il medesimo arco. Non una virgola fuori posto nella tessitura dialogica, all’esattezza della quale contribuisce la generosa prova degli attori in scena. Alessio Bonaffini è un maldestro 584, docile tuttavia e amabile dentro i suoi indumenti sgargianti e uno sguardo presumibilmente proteso verso quell’Aldilà che cozza con il decalogo del Movimento. Francesco Biolchini è un capo (892) sempre ligio al dovere, che attraversa senza soluzione di continuità i moti ondosi della scrittura, con quella resilienza che compete a chi ha il dovere di tenere in piedi la baracca. Quando il sospetto lo pervade assume pose nervose. Ciononostante non si esime dal discutere, dal dare spiegazioni: gesto democratico che ne ingentilisce il peso dentro i ranghi del potere.
Tino Calabrò possiede la freschezza e l’irresponsabilità di un giovane 137 che preleva antenne per una TV che non c’è. La parabola del personaggio è nel suo caso ascendente: la consapevolezza raggiunta per gradi, poi la disperazione innanzi alle accuse ingiuste, infine la rabbia, che monta sul finale, a giochi fatti.
Cinzia Muscolino, il cui tocco è determinante nella scelta di scene e costumi per una rivoluzione policroma e a momenti trash, è la spietata burattinaia alla quale spetta accatastare finzione su finzione. Da malcapitata a Mata Hari in abito Dior è un passo. Sempre in bilico, con sforzo attoriale notevole, tra vittimismo e perfidia.
I tre rivoluzionari, guadati in varie circostanze dal triste refrain “siamo diventati delle bestie”, possiedono di fatto quell’ingenuità che li staglia dalle cose. E questa è la vera rivoluzione, l’unica peraltro che potrebbero mai fare. Il campo di girasoli li attende e lì, più che altrove, sotto un cielo sorvolato da elicotteri, si custodiscono veri ideali per l’eternità. La stramberia era dunque purezza, la loquacità urgenza di comunicare, i modesti passi di danza poesia.
Ciò che accade, scanditi i quadri dai titoli accampati su una panchina e su un tappeto musicale che omaggia Brecht, autore della ballata di Mackie Messer, scivola via a ritmo serrato, grazie a una regia che di rado indugia sulle sospensioni. Ché tutto d’altronde già gode d’una sospensione fenomenica e non necessita pause comunicative. Dentro i ranghi della rivoluzione la parola assume un valore precipuo, intrinsecamente provocatorio. Dovrebbe cacciare via la bontà, come sancisce 892, ma quella, la bontà appunto, pare essere insita nell’individuo e non v’è modo di sfrattarla.
Pochi riferimenti al “fuori”: un universo senza amici, senza immagini, con poche parole e troppe armi. Un derby sempre alle porte e lo stadio da ripulire per i grandi eventi sportivi. Sono così gli uomini: alle rivoluzioni preferiscono lo svago sugli spalti. O un ministero. O un Dior.
Mentre rimane l’amarezza per tutti i sogni sognati da poveri Cristi in cerca d’un mondo migliore. 892, 584, 137 hanno essenzialmente perso. Tino Caspanello ha costruito per loro un castello di carta dentro il quale sognare. Un tempo piccolo, un orizzonte presto infranto. E della purezza cosa rimane? Della purezza restano i fiori, sotto i quali giacere, al riparo da un mondo che non ne sente più i profumi, che guarda un cielo di stelle in una notte silenziosa senza ravvisarne la bellezza.
Che sia la solitudine la vera rivoluzione?
Sugli applausi finali mi guardavo attorno. Nell’area Iris dove ieri “Quadri di una rivoluzione” ha inaugurato la X edizione di Cortile – Teatro Festival gorgogliavano quei segnali di vita che si sono pazientemente attesi durante i lunghi mesi di chiusura dei teatri.
Non si poteva cominciare con uno spettacolo più conforme agli intenti del direttore artistico Roberto Zorn Bonaventura. Ché fare teatro oggi è rivoluzione, è guardare il cielo e scorgere le stelle, è persino sentirsi padri, come 137 e 892, di un’illusione e poi di un’illusione e poi di un’altra illusione ancora.

(da Infomessina.it)

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