Giusi Arimatea

TEATRO

BLUES

Quando si sposano il garbo della scrittura e l’eleganza della recitazione è possibile costruire una storia semplice e metterla in scena con l’unica pretesa di andare diritti al cuore dello spettatore, senza artifici che lo imbocchino o manierismi che lo confondano. Privilegio questo, nell’oceano di sofisticazione, che spetta solo a certo teatro. Onere, se vogliamo, assunto dagli attori autentici, quelli che sulla scena indossano gli abiti del personaggio come se non ne avessero mai portati di diversi.
S’apre pertanto all’insegna della qualità la stagione teatrale di Atto Unico a Santa Maria Alemanna, promossa da QuasiAnonimaProduzioni. Lo scenario è senz’altro di gran pregio, la direzione artistica di Auretta Sterrantino lascia già intravedere l’oculatezza delle scelte operate, l’attenzione riservata alla stampa addirittura esemplare.
Il resto però, nelle due repliche domenicali, l’hanno fatto Tino Caspanello, autore e regista di Blues, le scene e i costumi di Cinzia Muscolino, e il superlativo Francesco Biolchini, lì a riempire il suo piccolo orizzonte di treni che passano con pochi suppellettili e un gran numero di taccuini a testimonianza del tempo andato.
Tutti rincorrono le ore, tutti si affannano per arrivare chissà dove, nessuno pare abbia mai raggiunto il traguardo agognato. Invece l’uomo sgorgato dalla penna di Caspanello, come un Danny Boodman T.D. Lemon Novecento della terraferma, semplicemente aspetta. E attorno a quella attesa lascia che ruoti tutta la sua genuina esistenza. 
Il padre e la madre nel lontano 1958 avevano accolto i passeggeri d’un treno che si era fermato davanti la loro casa. Un evento così sporadico da meritare d’essere fissato per sempre nella memoria del figlio, i cui occhi puliti sorridono al pensiero del padre che in quella occasione aveva cantato e della madre che teneva un fiore tra i capelli. 
Inconsciamente un nuovo ‘58 era diventato il suo sogno più grande. E quando realmente un treno si era fermato sulle stesse rotaie di allora a Blues era parso opportuno assumere quel compito di intrattenere i passeggeri che era toccato un tempo ai suoi genitori.
Ma il mondo, si sa, cambia. E pure i treni. 
Finestrini e porte bloccati impediscono ai passeggeri di regalare un po’ di sé a chi per una vita li aveva attesi. 
Al piccolo grande Blues non resta che parlare a una donna superando col labiale l’ostacolo sonoro del vetro dei finestrini. E lì, con quel fiore tra i capelli che profuma di cose per sempre andate, Blues non si risparmia in generosità, in garbo, in purezza. 
Deriso o meno dalla sua interlocutrice poco importa. A me piace pensare che l’innocenza sia sempre sinonimo di virtù, che il sentimento subentri sempre all’avvertimento del contrario, che persino da un mondo di sofisticazione e falsità sia possibile scorgere e ammirare certo naturale candore.
Quella mano lì poggiata sul finestrino, mossa dall’assurdo desiderio di sentirne un’altra, costituisce tutto il sogno. 
Giusto il tempo di immaginare il deragliamento esistenziale e via, un istante dopo il treno parte. A Blues resta pur sempre la vita, restano i treni. Resta quella serena, ammirevole rassegnazione di chi non aspetta pirandellianamente il fischio per sovvertire le cose. Ché nulla mai si sovverte davvero. Ché il fischio è solo una maniera salvifica e routinaria di guardare passare la vita.

(da Tgme.it)

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